L’azzurro cielo

La scrittura è certo sopravvalutata. Potrà anche esserci l’azzurro cielo nelle tue pagine e, lì, anime sconosciute sentire il tuo spirito quando sarai lontano dalla terra. Ma tu, sotto quel cielo, non avrai camminato vero; l’aria pungente dell’inverno non ti avrà pizzicato il naso, né il sole d’agosto bruciato la pelle e impedito il sonno col suo fuoco la notte. Perché sarai rimasto al chiuso, a scrivere con la flebo dell’immaginazione attaccata al braccio, senza distribuire baci concreti e solo tuoi al mondo dei presenti, incontrarti con un amico, sbagliare amante persino, perderti in una città sconosciuta o suonare tutto il pomeriggio per prepararti alla prima serata della tua vita. L’opera varia di annotare le impressioni per riverberarsi negli atri di spazio e tempo: capite quant’è sopravvalutata e, anzi, spia di semi-infermità, nido per allodole capaci di intendere ma non di volere! La cosa grave, certo, è ritrovarsi proprio qui ad annotarlo, e persino con una certa cura, favolando un azzurro cielo vibrante di flauti da farvi sentire. Confido nel sabato però e nel mio orecchio teso, non alla favola, ma a un bene corporeo, presente, che mi dica negli occhi sei incorreggibile, mentre sorride.

A una primavera

C’era una volta un catafalco in tessuto e animella d’acciaio che doveva fare un viaggio, trasportato imballato fragile alto maneggiato con cura. La ragazza che veniva dalla luna l’aveva richiamato alla sua forma, convocato a titolo di primavera decisiva in nome dell’eros che altri chiamano vita. La ragazza era lisa, non meno logora del cucito rosso prima di diventare catafalco in viaggio e anzi, tra le righe, ormai giunto a destino da un canale di laguna a fine ottobre, cioè qui e ora, se non l’hai capito. Lo spacchettarono, tipo visita medica militare, per vedere se era pronto o no alla trincea degli sguardi sulle facce di carne che avrebbero cercato di vedere nuda la ragazza. La ragazza che il suo lavoro le faceva anche paura, e lo faceva spesso come in trance, andando quasi lontano dalle sue mani che toccavano le forme; la ragazza che veniva dalla luna. Sì, e io vengo dal sole, le dissi quando litigammo, una volta, per capire come si rinasce.

Viaggio

Il motivo del viaggiatore non è scoprire come sono fatti altri posti, ma prima di tutto assicurarsi che ci siano davvero, che il mondo fuori portata esista davvero e alla parola Amsterdam corrisponda un cielo, dei marciapiedi e tante vite veramente. Nessuna immagine, fissa o in movimento, ci darà mai la conoscenza e la certezza che viene da una camminata. Che poi, nei posti “altri”, ci siano usi e culture diverse dalle nostre è solo, credetemi, un corollario alla terra che arriva fin lì. E il viaggiatore che torna può solo testimoniarlo coi suoi occhi – che la terra fin lì ci arriva davvero – perché qualunque parola riporti ai compagni rimasti, anche quella non sarebbe una strada. Come non lo è questa mia, per quanto gli amici possano vedere le foto e annuire e immaginare di capire. Sempre meno, capire; sempre più, tornare.

C’è una solitudine

C’è una solitudine che mi prende spesso prima di imbarcarmi in aereo per un viaggio, legata al mio terrore di essere in volo, che parta da solo o in compagnia. È uno stato buono a nulla, puramente vuoto e non proficuo alla nascita di alcun sentimento di unione col mondo, perciò anche questa nota è zero. O forse, paura. Domani per due ore e mezza sarò un volo verso il mare del Nord e stanotte sentirò crescere più forti ai piedi le radici che mi verranno strappate dal suolo. Dormirò male pensando all’impossibilità di respirare sopra le nubi, oltre le Alpi e sui fiumi, fino ai canali di una città medievale che oggi va in bicicletta, ricorda una bimba che scrisse un diario e un infelice morto senza un orecchio. Faccio parte delle persone che conoscono la solitudine formosa, ma non è quella di stasera. E lo scrivo ora, programmando l’uscita del post a quando sarò ancora lontano e analogico, in viaggio senza potermi connettere, né volerlo fare. Sarà la mia scia, visibile in dolce differita come una lettera d’altri tempi. Una volta, sentendo l’annuncio dopo l’atterraggio – fate attenzione quando aprite le cappelliere sopra di voi – ho immaginato che tutti i trolley e gli zaini dei passeggeri attoniti si fossero trasformati in cappelli, dando finalmente ragione al nome di quegli scomparti. Io, quando viaggio, lo porto sempre il cappello. Ce l’avrò anche in questo momento, che sarò disperso in qualche stradina coi piedi per terra e il naso all’insù, dove si può respirare. Tutto.

Non manco di nulla

Un giorno non esisteranno più i “nativi digitali” perché non ci sarà più nessuno da distinguere rispetto ai nati dopo l’ingresso nella quotidianità di computer, internet, telefoni cellulari e Mp3. Nessuno nato prima del 1985, all’incirca. Facebook esisterà ancora e si sarà evoluto a dovere. Tra le altre cose, ci saranno le notifiche automatiche dei pensieri: ogni volta che qualcuno ti penserà si accenderà il numero rosso nella miniatura blu del mondo, grazie al microchip implementato nella corteccia celebrale connessa col nostro account h 24 alla Rete. Allora, nessuno conoscerà più la clemenza del dubbio in lontananza o la sorpresa di una conferma successiva: sai che ti ho pensato? Non si sentirà più nemmeno la mancanza di quel miele, non avendolo conosciuto prima. Con l’avanzare del progresso, a lungo andare ci saranno altre tipologie di “nativi” e, come loro, i loro figli avranno meno mancanze da sentire. Finché non ci mancherà più niente. E saremo tutti felici.

A scuola di lettura

A volte quello che vorresti nel segreto non è scrivere qualcosa di raro e meraviglioso, ma intervenire ancor prima della comunicazione e far sì che qualsiasi cosa tu metterai in parole sarà impossibile da ignorare, non per la sua bellezza ma proprio così, per una sorta di stregoneria. Perché sai che qualunque testo, per quanto bello, è tranquillamente passibile di non lettura, non comunicazione, anche solo per volere del caso: basta non aprire mai quella pagina o passare lo sguardo oltre con occhio distratto. L’esperienza di lettore diventa allora per chi scrive un controluce istruttivo sull’invadenza propria del suo sentimento, sogno di esserci per qualcuno, desiderio di relazione prima che si manifesti l’interesse dell’altro; e la lettura si fa promemoria contro la vanità, per lo scrittore che tende al meglio pur senza alcuna garanzia di arrivare, e dunque di esistere. La sua esistenza infatti è cifra d’occasione, dubbio da fugare ogni volta sulla riprova del suo testo, sorta di incidente che può capitare in vita o dopo, quando si avverano le due condizioni: aver scritto qualcosa di buono, essere letti da qualcuno. Solo del lettore conosciamo per certo l’esistenza. Ma l’uomo che scrive, ombra in cerca di materia a cui appartenere, non può non desiderare a volte di essere Faust, l’irresistibile musica.

La nonna

La nonna che canta vive nove anni in più rispetto alla nonna che prega. E sei anni in più vive la nonna che canta rispetto alla propria ragione.  Non riconosce più nessuno in casa. Conosce soltanto le sue canzoni.
Una sera va dall’angolo della stanza al tavolo e dice al chiarore della luce: Sono così contenta, che tutti voi siate con me in cielo. Non sa più d’essere in vita e deve cantare se stessa fino alla morte. Non contrae nessuna malattia che la possa aiutare a morire.

Herta Muller, Il paese delle prugne verdi (Keller, 2008) – traduzione di Alessandra Henke

Il mattino

Il mattino è una frana e io mi accorgo di essere senza primavera, ma una rondine. E questo per quanto riguarda Poesia, che nel suo cielo mi sento ben tirare le ali aguzze pure se gli altri, leggendo i miei precipizi e le giravolte, non sentono punto il ventuno marzo. Quanto alla frana, parlo dei sogni che smottano in cuore quando risaliamo la sponda in cui pensiamo che avvenga tutto, e siamo stanchi. Ma non sappiamo.

Tempo

Oggi c’è brutto tempo in quasi tutta Italia e ho pensato che però ai bastioni secolari che abbiamo in tante città poco importa se diluvia o c’è il sole e, anzi, ricordo che quando mia madre mi portava a scuola costeggiavamo in auto le mura normanne vicino al palazzo Reale di Palermo e io nei giorni nuvoli appuntavo gli occhi ai musi invalicabili e neri favolando sul tempo in cui ci stavano, anche sotto la pioggia, le sentinelle della città vecchia e pensando altro che scuola, altro che lezioni, altro che interrogazione di matematica che mi tocca a terza ora, queste mura colavano pioggia mista a scoli di latrina e dentro e fuori i ragazzi della mia età andavano a piedi nudi luridi fra i banchi del mercato o formavano bande per razziare pecore e alleggerire i frutteti nei poderi dei nobili, tornando a casa pieni di ferite la sera anche se pioveva a dirotto tutto il giorno, come oggi che c’è brutto tempo in quasi tutta Italia e mi sembra che le cose non siano tanto cambiate dal tempo dei normanni, ma più da quella terza ora.