Ieri a Palermo hanno meritoriamente intitolato una strada a Enzo ed Elvira Sellerio, il tratto finale di via Siracusa dove la casa editrice ha la sua storica sede: da oggi la Sellerio sta in via Sellerio. Anch’io ci sono stato, un paio di anni fa. Ricordo, andai a bussare a quella porta e furono gentili, ma dissero che le stanze palermitane ormai ospitavano più che altro il deposito, le varie segreterie, vi gestivano forse la posta e poco altro, ma “le decisioni” – dissero proprio, le decisioni – di linea editoriale e gli incontri importanti, il centro nevralgico insomma, si era tutto spostato da anni a Milano. Così la strada a cui si dà il nome è sempre quella già percorsa, quando i motori girano ormai su altri orizzonti e al luogo di origine resta il primato di cartolina vivente. La cosa buffa è che la coincidenza fra nome della strada e quello della figura omaggiata ne rende ancor più debole la pregnanza, meno prensile il valore, poiché allora l’unico modo per uscire dalla tautologia urbanistica sarà indicarne la posizione – a chi vorrà sapere dov’è a Palermo la Sellerio – nominando le vie che la delimitano e, loro sì, ne danno il senso, le coordinate. Andate pure via, Sellerio! A Palermo resistono Francesco Alliata, principe di Villafranca, e Giovanni Maria Ramondetta, duca di Sammartino.
Mese: febbraio 2016
Rugby
Stringi la palla e portala avanti; se devi passarla, solo all’indietro. I metri guadagnati sono l’inestimabile riduzione di quel passaggio all’indietro. Si avanza solo in linea, tutti insieme; si lotta sempre in mischia, mai da soli. Sulle maglie niente nomi, solo i numeri ordinati a partire da uno, senza eccentrici salti nella conta, per quanti guerrieri fanno la squadra. Mentre alcuni compagni sono ancora a terra, storditi dall’ultima pressa di muscoli, può capitare che la squadra raggiunga la meta (mai obiettivo ebbe nome più esplicito) facendo punto anche per te, ancora intento a rialzarti e forse tutto intero. È allora che un altro dei tuoi cercherà di infilare la palla in mezzo a un grattacielo d’aria fra due pali, con un calcio spaziale che vale altri due punti in aggiunta a quelli della sudata, insanguinata, apocalittica meta. A quel punto sì, ci sarà il tempo di togliersi il paradenti coi colori della nazionale e aprire il volto mastodontico, schiacciato e paonazzo a una linea curva che in altre occasioni chiamano sorriso, ma in questa soltanto è utopia che si realizza nell’unico corpo di quindici uomini.
Guardarsi
Oggi in libreria non avevano La cognizione di Gadda, dice che ormai come opera singola è fuori catalogo e nemmeno ordinabile, si può leggere solo se compri un volume che raccoglie altri scritti dell’ingegnere. In compenso, c’era un tizio con un pappagallo verde sul dito indice sospeso all’altezza del mento ma non tutti se ne accorgevano. Una tipa l’ha fatto notare al figlio che ha trattenuto l’uomo per chiedergli non so che, facendolo restare indietro rispetto alla donna con cui era entrato in negozio. Con lei e pochi altri che si sono accorti della cosa ci siamo persino guardati negli occhi. Incredibile.
Campo
Ieri ho visto in tv la scena di due che restano bloccati in campagna con l’auto in panne sul ciglio della strada. Così provano a chiamare soccorsi ma nessuno dei due cellulari prende e allora lui, agitando il telefono in mano, fa avanti e indietro sulla terra smossa dall’aratro lamentandosi, niente Sara, non c’è campo, non c’è campo, pur essendoci in mezzo coi piedi affondati. Mi è venuta la pelle d’oca.
Primizie
Passata ormai una settimana, sono finiti i nomi dei giorni da pronunciare per la prima volta senza il tuo respiro sulla terra. Stasera però ha iniziato a piovere, per la prima volta dal tuo respiro, così ho scoperto com’è fatta quest’altra pioggia, questa pioggia nuova, e te la racconto. So che ancora mi aspettano tante altre primizie, dal tuo respiro: il primo ventuno marzo, il primo bagno a mare, il primo compleanno e tanta altra vita nuova. So che forse il loro calore mi sembrerà sempre più raro, perché più rare saranno le prime volte, non più legate al ciclo delle stagioni, quando il mondo avrà ballato per tutta la sua pista intorno al sole. Per quanto rare, tuttavia, la promessa certa di una tua ultima primizia mi accompagnerà sempre, finché non sarà mantenuta la prima volta che la terra mancherà del mio respiro, dal tuo respiro sulla terra.
Nebula
Mi cade in mente il fulmine Ida e nel petto sento le accelerazioni di un amore che mi si effonde attorno come nebula di sale scoppia dal mare rotto sul cemento e fluttua al vento in controluce di lanterna dopo il crepuscolo, perché trabocchi e ti rifrangi e sbatti sul dovere che in questo momento ho di fare altro, per lavoro. Così, mentre lavoro – ma sarà anche mentre passeggio, faccio la spesa, rido con gli amici, canto una canzone – ti si vede tutta intorno a me, fulgore di misteri indomiti a qualsiasi lancia d’orologio.
Luce
È notte nel viale di S. Lucia, al sant’Orsola di Palermo. Per brevità di stoppino, la fiamma che a mezzogiorno non arrivava su, a ripararsi dal vento fra i vetrini della lanterna, adesso sarà spenta e la sua candela resterà così a lungo, nuova. Ma adagio, adagietto, il tappeto odoroso di colori che ricopre il marmo avrà acceso di certo la sua fittissima trama per fare ancor più bella la luna sui cipressi e raccontarle come sono andate, e cosa sono state, tutte le cose.
Ida
Casa e cura, sei sempre stata. Hai sempre abitato queste due parole madri e me ne accorgo solo ora che ti saluto per l’ultima volta, stretta pelle sottile dentro il legno che solo a dirlo mi vergogno di fartelo sapere. Ma ho qui un grido per ringraziarti e pregarti di un’ultima cosa, dopo tutto l’amore che mi hai fatto diventare: diventa il mio angelo, diventa il mio angelo adesso; adesso che non posso, e lo dico – forse ne saresti felice – non voglio fermare il treno del sole che mi chiama a diventare anche io una moltiplicazione. Casa, dunque, hai sempre avuto posto per noi tutti; cura, come di musica e confidenze nel pomeriggio sui miei guai di adolescente.
Solo ora mi accorgo pure di una sincronia, una coincidenza quasi matematica, che in te ha fatto robustissimo il cuore, orologio che non mancò battito nel dilatare un’esistenza già depennata nelle piaghe nere dei fianchi e dei piedi; cuore che del tuo compagno era invece la parte più debole e gli fece incontrare il mistero già vent’anni di mondo fa. Cresciuta come una musa, arsa d’amore per un pianista, sognata da venti spasimanti rifiutati prima e dopo la guerra, rinata a diciott’anni figlia di un medico e libero docente, poi donata al canto isolano e vinta dalle poesie e dalle mani di un uomo radicale, hai messo foglie per dargli ombra di ristoro e frutti al quadrato di vita nuova, hai vinto le bufere stretta a motivi severi e lievi ritornelli, guardando più lontano di molti, dando da mangiare a chi si presentava e coltivandoti in noi come romanzo in un microbo paesino del trevigiano sulle rive del fiume Zero.
Sarebbe giusto pettinare il tempo di questo tuo fiume proprio da lì, come dire dall’inizio, sì, da Zero. Sarebbe giusto e mi sembra quasi una voce di vento da educare, seguendo gli ultimi racconti lucidi che mi facevi il sabato pomeriggio, prima di riminchionire del tutto e fare del mondo un rimando sempre più corto di voci e facce da guardare con sospetto; quando ancora sull’orlo del tuo saluto, a cui solo rispondevi illuminata dal mio dire nonna, sono io, scrissi questi versi finali di una poesia intitolata Madre musica di mia madre: Forse persino ora, lasciato andare via il tuo passato, rimbambita come sei, hai ancora una cosa importante da ricordarci: l’amore si declina sempre al presente, proprio dove sei rimasta incagliata tu: nel mio.
Marco
Elettricità
L’uomo si è sempre lamentato del suo tempo, in ogni epoca. Come noi oggi possiamo lamentarci del nostro mondo, allo stesso modo gli antichi si lamentavano ieri di qualcosa. Così, recuperando sulle rimostranze del passato, oggi voglio lamentarmi dell’elettricità. Questa grande invenzione ha cancellato una volta per tutte l’alternanza naturale fra giorno e notte, attività e riposo, azione e pensiero, sfera pubblica e sfera intima, che in qualche modo ancora predominava al lume di candela. La stessa alternanza che per natura impone all’uomo – in qualunque situazione di vita si trovi – di staccare la spina dal mondo percettibile e dormire almeno sei, otto ore a notte. L’elettricità ha inaugurato il continuum più velenoso ed è sinonimo di tensione, nervosismo; mai di cose buone, serene, rilassate, calde.
Insignificante
L’uomo non significa nulla, anzi, la sua umanità si annida proprio nelle errate inferenze degli altri. Sei un tipo scorbutico? Significa che non sei stato tu a nutrire il gattino che ha impietosito gli altri passivi condòmini. Leggi tanti libri e dicono che il cervello ti cammina? Significa che non può piacerti l’ultima canzone Arisa. Sei contento di aver votato 5 Stelle alle ultime e ormai lontane elezioni? Significa che devi difendere sempre Grillo quando spara cazzate e non ridere mai se gli sfottono i parlamentari. E così via. Ma il segno è: essere se stessi dappertutto, come disse Piero Gobetti. Sarai un’anima trasversale, feconda, e desterai sospetti. La contraddittorietà e l’incoerenza che ti imputeranno nasconderà solo un eccesso di semplificazione. Mentre l’uomo autentico è semplice ma non semplificabile. E non significa nulla, l’uomo, se per senso intendiamo la descrizione di una forma necessaria e prevedibile di idiosincrasie e innamoramenti, persino futuri; un profilo, ecco, come quelli dei consumatori, dei nemici dei servizi segreti e – da dieci anni – delle persone sui social. L’uomo autentico è insignificante e lo sa: non si dà importanza da solo e ha il cuore libero di spaziare.