Mio Dio, ti sento e mi accorgo con tutto il cuore dei tuoi amati, perché amando ho ben capito i loro doni ma molto più perché hai sentito me, dannatamente solo e indegno di essere messo dopo ogni cosa. Intendo con il mio canto avìto ringraziarti sempre più e suscitare l’occasione prossima del creato. Signore, fino alla fine, innamórati.
Mese: marzo 2016
Scrittori
Se ti piace scrivere, scrivi, dicevo. Il giornalismo è un mestiere per chi ama stare al centro, ha la cervice adatta a insistere rompendo i coglioni o, in alternativa, chiunque sa farsi assumere con l’art. 1 del contratto nazionale. Attività completamente diverse, ribadivo ai colleghi praticanti appena conosciuti. Premesso ciò, ricordo che scherzando (neanche poi tanto) si diceva dei giornalisti: sono quelli che spiegano a tutti cose che per primi non capiscono neanche loro e – interessante, forse da qui nasce l’equivoco tra le due professioni – ora credo che per gli scrittori si possa ricalcare lo schema: sono quelle aquile che descrivono con un controllo perfetto della lingua aspetti della loro realtà che non riescono a controllare bene e a spiegarsi, anzi che gli sfuggono proprio, anche dopo averli descritti in maniera tale da sembrare che li abbiano domati, gli stessi che molti presumono di aver già schedato da anni e invece, guarda, ecco come si chiamava quella cosa lì, sentivo che stava stretta nelle cartelline in cui avevo cercato di infilarla ogni volta da un lato diverso, procurandole i calli nell’ultima in cui l’ho archiviata e finalmente, dopo aver letto lo scrittore, invece della mia etichetta angusta posso darle un torace e un nome nuovo, un nome lungo una frase, un capitolo, un libro intero che, mentre leggevo, pareva lo stessi inventando.
Un sogno
Io sogno di accendere la TV su canale 5 e assistere all’esplosione di una bomba durante la messa in onda di Uomini e donne: un attentato, il fumo nasconde jeans strappati, scarpe senza calze, maglie lunghissime e storte, collane e tatuaggi in faccia, anelli su tutte e cinque le dita e frangette laccate. A un tratto si scopre che il concorrente con le sopracciglia meglio rasate è riuscito a salvare la vita a una o più delle prozie sguaiate del pubblico, mentre quello accusato di essere il più finto, tacciato di stare lì solo per le telecamere riesce a catturare i terroristi e salvare pure il cane del cameraman con cui è diventato amico durante le “esterne”. Sogno insomma di cambiare idea. È impossibile, lo so: le puntate sono tutte registrate, darebbero la pubblicità staccando sul primo piano della plastica di Maria con la bocca sverginata dallo stupore. Eppure, cambiare idea, è un sogno a cui tengo.
Nessuno critica i poeti
La critica letteraria che si occupa di poesia non usa mai mezzi termini, consapevole di misurarsi nell’ingrato e asperrimo compito della costruzione valoriale in un ambito che, tolta la plausibile scientificità di una storia delle forme, in cui certo descrittivismo può anche sfiorare il grado stesso di poesia, manca però di sufficienti appigli che le garantiscano una presa effettiva e autorevole nell’anarchico gusto del lettore di poesia. Così intimo è il rapporto fra lettore e poeta che nessuna critica potrà mai avere l’ultima parola nel determinarne idiosincrasie o predilezioni. A questo limite collego la sottile frustrazione che avverto nella ridanciana sufficienza e nei compiaciuti sfottò categorici sul poeta di turno (magari osannato da altri) da parte di intellettuali o studiosi che pure stimo. Esempio: “Il doodle oggi dedicato ad Alda Merini mi pare ragione sufficiente per abolire la giornata mondiale della poesia”. Perfetto, mi dico, ormai so andare oltre. Perché è evidente che non sia lei la vera destinataria di questo tipo di commenti (non fece davvero male a nessuno in termini poetici quella cara vecchietta), ma tutto il parterre di chi a un certo punto – per sentiti motivi letterari o prosaiche opportunità editoriali – ebbe interesse a creare valore intorno a lei. Nessuno può avercela con Alda, nessuno ce l’ha con me, è una battaglia consumata lontano da qui, lontano dalla poesia.
Vampa
A Palermo la notte dei tempi è stata accesa per la prima volta da una vampa, all’epoca si raccoglieva solo la legna, ora si fa anche con l’immondizia. Dicono che il rito, fissato al vespro di ogni 18 marzo, nasce dal culto del sole. Di certo, oggi in scaletta non possono mancare gli scontri tra i suoi fedeli e i vigili del fuoco, lesti a gettare acqua sui roghi in fiamme. Se diventasse legale, non si farebbe più, sparirebbe. Le pire consumano travi, porte, mobili vecchi; poi all’ultimo minuto si aggiunge qualsiasi cosa. Quest’anno, in cima a tutto c’era un pupino dell’uomo ragno contro il cielo che iniziava a tremolare nell’aria bollente. I figli stanno a guardare incantati e fieri accanto ai padri: domani è la loro festa, una sfincia non ce la toglie nessuno. Giriamo tutta la settimana in cerca di legna, dice il secondo in comando alla vampa di Ballarò. La polizia è già venuta e si è portata via mezza catasta, ma noi l’abbiamo rifatta, la rifaremo ogni volta. Il secondo in comando ha tredici anni e una lama di coltello al posto del sorriso. Non gli importa se il fuoco minaccia puntualmente i balconi e le facce delle case, oltre a scarificare l’asfalto: la vampa nessuno la può astutare, è un pezzo di sole che al tramonto si incaglia su questa parte di mondo e la brucia. La vampa è un rito locale, ancestrale, brucia tutto l’anno nel sangue dei picciotti di borgata, non è roba per turisti di passaggio in crociera, ricconi che arrivano al porto e scendono dalle navi palazzo. La vampa si adduma tre giorni prima che resusciti la primavera e i tagliagole dicono che altrimenti la stagione manco ci fosse, manco partisse: fosse sempre inverno che aspetta di venire squagliato.
Doc
Oggi guardavo una delle puntate che manda Rai 5 sui grandi della letteratura italiana, stavolta toccava alla selvatica Elsa Morante, e all’improvviso mi ha morso un pensiero. Soppesandone con Camurri la grandezza e beandomi delle osservazioni di Trevi e Berardinelli – fra vari estratti, letti da Licia Maglietta – mi sembrava di afferrare davvero l’importanza e la grazia di una scrittura autentica e dire, mi sono detto, che all’epoca non c’era solo lei, ma tanti altri che oggi ammiro come classici, da Gadda a Calvino a Pasolini (citando tre esempi diversi, ma di scritture ugualmente organiche). È stato allora che, investito dal fulmine Ida, mi sono detto, in parallelo, e dire che mia nonna è stata perfetta contemporanea di tutti questi artisti e, potendo quantomeno accorgersene, si è occupata invece per tutta la vita di un altro libro: quello che le usciva di bocca ogni volta che stavamo insieme. Il suo romanzo orale non ha nulla in comune per accenni o ispirazione con l’arte o la biografia di quei grandi – vite sfioratesi neanche da lontano, un giorno, che so, nella Venezia degli anni Trenta – eppure fonda la mia letteratura in maniera più vera di qualsiasi altra. A quel punto ho sentito il morso. Più saggiavo l’estraneità pacifica, la reciproca indifferenza tra quelle due realtà coesistite (Letteratura dei grandi, Vita di nonna), più entrambe acquisivano merito e bellezza, ogni volta che riuscivo ad accrescere la distanza fra loro elencandone gli attributi. È possibile scrivere o, ahi!, vivere davvero; altrettanto miracoloso è l’uno o l’altro destino.
Vangelo
L’etimo dice che significa buona novella, lieto annuncio, e il libro mette subito in chiaro chi siano i destinatari: tutti, nessuno escluso. Oggi il vangelo raccontava della adultera e della sua mancata condanna da parte di Gesù rispetto ai parametri della Legge, che invece aveva già consegnato la pietra a scribi e farisei. La buona notizia è: niente pietre! L’uomo non è più sotto la legge mosaica, non è più sotto nessuna legge, nessun sabato, nessuna pietra. L’uomo di Gesù è libero dalle catene che i fratelli impongono ad altri fratelli nel nome di Dio. Siamo tutti simili, compreso lui, che nella pericope giovannea scrive chissà cosa col dito per terra (fu la tentazione di scrivere una legge tutta sua? Vinta anche quella: non lasciò scritta una sillaba). Il nostro problema è che, invece di dire “simile”, si è detto “peccatore”. Se infatti il peccato legittimasse il dubbio di un benestare divino sullo schiacciare la vita di un tuo simile, l’annuncio sarebbe lieto solo per alcuni, pronti di nuovo con le pietre in mano a vestire l’uniforme, dei riti militari come di quelli religiosi. E nessuna letizia vera, cioè universale, sopravvive al passaggio da una legge a un’altra legge che generi l’ennesima asimmetria di ferro, l’ennesima mortificazione. L’annunciata mancanza di legge però, questa buona novella, è un guaio. L’uomo ha da sempre bisogno di una guida, e lo sanno i discepoli quanto dovettero insistere per farsi dettare da Gesù almeno una preghiera, accidenti, una formula corretta: gli altri ne avevano a palate, di formule e risposte pronte! A loro toccò solo la forma di un appello filiale e il comando di amarsi. La mancanza di una ricetta completa, di un riferimento che dica dove andare di notte e ci faccia distinguere nord e sud, lascia atterriti. Ma una bussola c’è ed è tutta in quelle due piccole indicazioni. Il cardine sempre nuovo da duemila anni, e mai utile come oggi, vaccino contro ogni dubbio se sottostare al giogo di una legge che millanti ispirazione divina, è la reciproca conoscenza, termine che in questo caso è sinonimo di relazione. Tutto qui. Anzi: qui, tutto. In altre parole, l’uomo è capace di mortificare dal pulpito, di uccidere in mille varianti un altro uomo solo perché non lo conosce abbastanza. Per reggere il peso della buona notizia, si potrebbe dire allora, dobbiamo iniziare a conoscerci davvero.
Arcobaleno estivo
Se la pioggia scaricata dal repentino cielo nuvolo di luglio, che sterza sul manto afoso di cui ci lagniamo in estate, fosse un’incommensurabile perdita celeste di condizionatori e non un fenomeno invero più misterioso di quanto la scienza creda di saperci spiegare, non esisterebbe l’odore di terra appena sbucciata, di corteccia o pietra bagnata, di zefiro che ruba la scena al ventilatore ancora acceso davanti alla zanzariera, e tu non capiresti in un lampo – come quello che avrà preceduto l’ultimo tuono, pur mancando ancora della notte per farsi vedere – che lei, l’acqua scaricata dal cielo è identica alla cugina insapore che versiamo nel bicchiere e non può vantare un profumo suo proprio, benché molti dicano quanto mi piace il profumo della pioggia, ma elemosinando accenti diversi alla generosità di quello che tocca, sa incredibilmente e soltanto di cose altre da sé: di albero, di spiaggia attonita, di giare e ringhiere, di cambi programma, mezzi sorrisi, stracci e ancora di tutte le cose trasformate in un convoglio interminabile di fragranze in moto verso una sola meraviglia, che sfuma l’immane tripudio di odori nella festa perfetta dell’iride tirata ad arco sul mondo.
Liberaci, Libia
Basta un attimo per immaginarsi tutto al contrario: una coalizione di eserciti africani che discute su quale delle violenti forze centripete occidentali appoggiare per liberarne dalla minaccia gli europei. Appoggiamo la mafia o lo stato, le spinte indipendentiste del Caucaso o il dittatore moscovita? Escludendo solo per un attimo l’ipotesi dei buoni e dei cattivi, per cui i fratelli equatoriali sarebbero mossi da un disinteressato altruismo progressista che gli faccia individuare quale delle parti europee in causa ne rispecchia meglio il modello unico di sanità sociale e fratellanza pacifica, la scelta cadrebbe senz’altro sulla parte più disposta a cedere sovranità a cose “sistemate”, quando le loro armi avranno liberato il continente bianco dal cancro che ne ostacolava il sano sviluppo – cioè quello che finalmente comprenderà il marchio colonialista africano. Allora siamo pronti, Libia, liberaci dal nostro male.
Siria
la via di Aleppo.