Come a noi piace il canto degli uccelli che fanno casa sui rami alti delle ville, forse a loro, a questi esserini del cielo, piace sentire noi quando parliamo. E solo per un banale equivoco l’uomo canta pensando di farsi prossimo al cielo. Perché quando ascoltiamo il canto degli alati è solo in realtà il loro linguaggio corrente, quello che usano per dirsi le cose, senza sapere che a noi si dà in forma temperata. Così è forse il nostro suono specifico, il nostro semplice dire, come di due amici che parlano scavando il tramonto, che più affascina i vivi sugli alberi; e non il canto – per quanto “naturale” – che gli giunge come nostra imitazione storpia del loro suono azzurro. Questa ipotesi, che nessuna scienza potrà mai scartare del tutto con prove o interviste ai diretti interessati, per dire l’inconsumabile sorpresa della famiglia di cui siamo parte, e di noi stessi.