Beato abbandono

L’abbandono beato delle ville di famiglia che quest’anno non faranno da scenario alle feste gaie dell’ultima notte di dicembre. L’abbandono languido oltre il cancello dove è profumo di zagara e macchie di arance nell’umida aiuola sul vialetto che porta in montagna. L’abbandono dello spiazzo in cima alla scalinata dove posa la luce di questo primo inverno al crepuscolo. L’abbandono muto che fa cassa toracica ai canti degli alati sugli oleandri e ai passi falsi dei gatti sulle foglie secche. L’abbandono gremito di memorie e giorni condivisi nella disattenzione alla vita che fa miracolose le ore dei bimbi presi a giocare. L’abbandono delle vasche piene e di quelle vuote nel giardino che conosce i segreti della pioggia caduta a piombo e mulini l’ultimo autunno. L’abbandono commovente che invita a risalire la linea continua di mare spiaggia strada tonnara salita cancello, sotto i balconi di ferro, bompressi ai teli di lenzuola giganti contro le luci intermittenti delle feste. L’abbandono e le feste. Soave connubio, incantesimo.

Gira voce

Qualcuno ha detto che nel 2017 sul pianeta Terra non morirà nessuno. Tanto nero è stato l’anno che vira al termine, da gridare desiderio di vita fino alla sua realizzazione massima nell’anno che verrà. Non sarà tre volte Natale, come disse Lucio, ma gira voce che questa imminente epidemia di vita investirà anche il regno animale. Nessuno stambecco inciamperà sulle verticali dei monti, gli gnu uccisi dai leoni si rialzeranno per riprendere la migrazione ciclica insieme alla mandria, nessun cane o gatto lascerà il padrone e i veterinari ne saranno contenti ma solo a metà. L’uomo in guerra, l’uomo delle piantagioni in sud America, l’uomo nei quartieri neri di Napoli, l’uomo chino al duce coreano, continueranno tutti a sparare all’uomo col sangue rosso, quello che si nutre mangiando dalla bocca ed è venuto al mondo da una madre allo stesso modo. Ma appena i cecchini avranno girato le spalle coi fucili svoltando il colabrodo di cemento ancora in piedi fra le rovine di Aleppo, ecco che l’uomo, la donna, il bambino si riavranno da terra. Non ci sarà nessun giornalista a raccontare l’assurda eccezione del 2017, nessuno vedrà arrivare in spiaggia gli affogati col respiro di nuovo sotto il cielo, tutto avverrà senza che anima se ne accorga. Solo alla fine dell’anno prossimo ci stupiremo, ce lo diranno i preti e i becchini rimasti a bocca asciutta, diranno, ma voi uomini tutti dov’è che siete spariti?

Strettoie

Vivere è passare strettoie. L’ultima che mi ha portato dall’altra parte ha trattenuto i baci di un amore radicale; confido di intravederlo in una fogliolina verde accanto alle altre che, dopo i vari passaggi, mi sono cresciute ogni volta sul fianco sinistro, appena sotto il braccio. Per questo, se sento dire agli altri sono felice non mi cresce l’invidia: anche loro hanno passato strettoie pagando un prezzo, la possibilità di non vedersi ricrescere quanto incagliato nei denti della cruna. Quelli che dicono di essere felici, e la loro felicità è viva e vera, hanno rivisto in forma di gemma i brani della carne che si erano lasciati dietro; quelli che si dicono felici, e la loro felicità è di plastica e cieca, non hanno visto ricrescere il bene immolato perché non hanno passato davvero alcuna strettoia: sono rimasti dov’erano, braccia esauste a cercare di tirarsi dalla loro parte il destino che invece li aspettava al di là di una rinuncia. A volte le foglioline verdi di chi ha passato la cruna diventano musica, altre volte si fanno scrittura; a volte fondano il lieve strabismo di chi vede i miracoli dell’altrove, altre volte incastrano il fascino di una salubre malinconia nell’autenticità del sorriso. In sogno capita di stilare l’elenco sempre più lungo delle foglioline che aspettiamo dall’altra parte. Il primo Natale ha cambiato in gemma la nostre ali d’angelo. L’ultimo sarà difficile distinguerci da un gomitolo verde.

Una magia

Non scrivevo più in maniera semplice. Per me la lingua era diventata solo una magia dalla formula cangiante e, ogni volta che mi accingevo a mettere un pensiero in parola scritta, la sfida era ritrovare l’ultimo suono in cui la formula si era travestita. Dunque le parole erano sia contenuto che suono nel loro insieme, tutto contava: il significato era anche un significato sonoro. Il prezzo consapevole da pagare era che più di moltissimi avrebbero considerato “difficili” le cose che scrivevo, troppo difficili e astruse, esagerate, ecco, incomprensibili a volte. Perché non vuoi farti capire? dicevano. Ma io confidavo ciecamente nel potere della formula per restituire altri mondi. E poi mi dicevo, nessun correttore grammaticale ha mai fatto il capello all’abracadabra: se la formula è in una lingua un po’ strana ma la magia funziona, a chi importa? Aprite le orecchie e non fate i secchioni. Sarà anche un volo imperfetto, ma lo state già facendo.

Il sarto

Domani è il 21 dicembre e il sarto della luce finirà il lavoro, più corto di così l’orlo non potrà essere. Le caviglie nude dei giorni si riavranno dal gelo insieme a una luce sempre più lunga che all’inizio non sarà facile notare. Ma lentamente, sotto il manto invernale coverà il natale delle rondini con le ali aguzze: alte sui prati, le vedremo bucare i cieli per farci passare ancora più luce. E luce così in abbondanza da scardinare anche il giro delle lance sui polsi e spostare il tempo avanti di un’ora. Ora, questo ricamo paziente della natura comincia tra soli due giorni. Prendere le misure di tanto creato è difficile però, perché da ieri e prima ancora la freccia di sangue sulla pietra non si asciuga, continua a colare strappando gli occhi da ogni altra cosa illuminata. E impossibile sembra, rifarsi a un metro unanime di giustizia, di pace e d’amore. Per questo il sarto mi ha chiesto di ricordarvi che lui si accontenta di poco, non servono metri a ordire la sua trama. L’imbastitura di luce avanza per centimetri, dice, anche solo millimetri sul tessuto dei giorni, bastano solo gli scampoli serali. La vita è di luce, un abito rappezzato.

Quasi giorno

Pochi giorni di vita ancora feriale e busseranno i fantasmi del passato e del presente e del futuro. Marley trascinerà dietro la porta le catene che lo attorcono allo strazio del rimorso. Viene a dirlo una sola volta: il Natale ti guarderà dentro parlando da una bocca gigante che fa la tua voce, ascoltalo e sarai vivo di nuovo. Tu hai paura ma non gli credi, puah!, spegni il moccolo di lato al cuscino e un buio arcigno ti rimbocca le lenzuola. Poi è la notte a cambiare forma. Ora voli sui tetti della vecchia città e dalla finestra ti vedi sgusciare tra le ginocchia dei nonni, la notte dei doni, via di nascosto ai piedi dell’albero allumato accanto al pianoforte; ora cammini per la città di stamattina e ti scopri senza più gambe da evitare, sono gli altri che si aprono come ali del mar Rosso per gli aculei del tuo guscio inossidabile; ora alberghi tra le croci dietro l’angolo, gli addetti alla pala commentano la solitudine di una cassa col tuo nome sopra, senza neanche merli sui cipressi per la grazia di un ultimo canto. Ormai è quasi giorno, l’alba a due passi. Avessi davanti almeno uno dei tuoi cari, gli urleresti dall’altra riva quante cose hai sbagliato. Mi dispiace di tutto, credimi, non lo rifarei, ora capisco. Posso starti accanto di nuovo? Pochi giorni di vita ancora feriale e si sentirà la risposta, sarà il mattino più azzurro.

Gli alberi disegnati

C’era un cartellone, fra i moltissimi appesi nel lungo corridoio, intitolato “Gli alberi di Cosimo”, un mosaico vario di chiome verdi disegnate dai bimbi con didascalia scritta a mano accanto a ogni tessera. Ho pensato che è bello andare a votare già solo perché lo scenario, decontestualizzato dall’insolito numero di adulti che vi si aggirano, ti dice che sta accadendo qualcosa di diverso, di raro e importante rispetto al resto dell’anno. E sarà certo per l’ampiezza degli edifici che si è scelto di farci votare nelle scuole, ma è una coincidenza felicissima a livello simbolico: gli adulti visitano la casa dei piccoli per decidere nei limiti del sistema che indirizzo dare, a quale nuovo civico trasferire il mondo che ospiterà i loro figli, una volta usciti da quella casa. Dove gli alberi non sono più disegnati, non c’è più un orario che metta ordine tra le materie e i maestri non li indovini dalle cattedre né dai registri.

Al diavolo con le mie gambe

Marradi, 25 settembre 1917 – a Giovanni Papini

Come un fauno deluso prendo il ghiaccio dell’acqua di un bacino sotto una cascatella montanina. Il sole non s’affaccia ancora dietro i castagni. […] Povero Dino. Non restare in mezzo alla via ti schiacceranno. Ma lui resta in mezzo alla via. Son nate fuori le cavallette e mi saltano intorno con ruote rosse. Pure in tutto c’è una certezza che io… (c’est un secret par tous connu)
Devo farmi coraggio?

Dino Campana, dal carteggio Al diavolo con le mie gambe (L’orma, 2015)