L’altro giorno ho visto Dio in fila davanti al capannone di don Minutella: voleva sapere come andare vestito alle sue messe. Non so com’è finita poi, se c’è andato oppure no – so che ci teneva molto alla sua minigonna. Per non parlare dell’altro giorno ancora, ero a messa e ho visto Dio rimanere seduto perché non poteva farsi la comunione. Non ha neanche voluto accogliere l’invito del prete a mettersi in fila per farsi benedire all’altare. Era depresso, dice che non se lo meritava. Don Alessandro ti benedica invece! Magari gli dico una parola io e la cosa si aggiusta. Se non attacca il discorso del perdono, della salvezza per tutti e delle pietre da evitare, gli dico che sei padre all’ebreo inchiodato, cioè, provo a farti raccomandato, gli dico che fai parte di una certa famiglia. Magari quella campana gli suona. Comunque diglielo a Maria (a quella giusta) che quando gli parla può difenderti anche lei. Insieme possiamo convincerlo. Almeno, io ci spero.
Mese: gennaio 2017
Non è pensiero
Era bello poter liquidare tutto denigrando l’ipocrisia nera del calendario istituzionale. Potevo farlo perché ero ancora piccolo. Ora che sono grande, capisco che invece serve fissare un giorno dell’anno per la memoria, anche solo per fare sapere ai piccoli quando recitare la loro nenia: I giorni della memoria sono inutili, io ci penso tutto l’anno. Magari se lo chiedono davvero: ma io ci penso tutto l’anno? Che poi, sarà utile? Pensarci tutto l’anno, intendo. E dopo che ci pensi? Memoria non è pensiero. È sentirli correre ancora nella neve, vederli scappare dalle macerie di Aleppo o in fila disumana per un pasto lungo il gelo di un muro alzato quest’anno – vestiti uguale: di pelle e ossa sottili – ungersi le mani di nafta per farli salire in barca, mentre altri colano a picco.
Filo
Prima di tutti gli alfabeti scritti o dipinti, c’era già il mondo sonoro intorno e la materia e mille tipi malleabili di filamenti vegetali, a partire dalla semplice erba smeralda, che l’uomo piegava per allacciare le cose realizzando nodi che, se insoddisfatto, poteva sempre riportare alla linea dritta originaria in cui riconoscere ancora la natura e, in quel filo verde, un pezzo dell’universo contenitore, memento della sua condizione filiale. Così immagino i paragrafi che accumulo piano nel tempo, se dubito del loro valore: che sia sempre possibile spiegare gli angoli delle lettere che li compongono e ricavarne chilometri di filo da risalire per trovare l’uscita dal mio labirinto e riveder le stelle nella pianura dei miei giorni senza parola scritta, fatti di verità fisica e ben altro linguaggio che quello alfabetico; solo fiato, sguardi, mani, silenzi e ogni altra materia sonora che poi proverò di nuovo ad allacciare – frammenti a miriadi – del mio piccolo universo.
Io sono
In baccio, dice la bimba che vuole essere presa. Ha una vocetta molle e tenera, come diventa il cuore a sentirla. Ha un nome, che non separa mai dal cognome e, se le chiedi quando è nata, dice: io non sono nata, io sono – e ripete nome e cognome, insieme. A quest’ora le viene la stanchezza sotto gli occhi. Ma di bobò non se ne palla: è arrivata la mamma. Le apiamo la potta? Sì. E cosa si dice in genere alla mamma, quando torna a casa? Mamma, c’è Matto e Lucia!
Empatia
I soccorritori della Gdf, leggo, hanno fatto cinque chilometri nella tormenta con ciaspole e racchette per arrivare all’hotel Rigopiano. Ho visto la foto di un edificio puntellato dopo il sisma, a Montereale, che fa sembrare di piombo la neve alta e compatta sul tetto. I camosci di Pescasseroli non hanno mai sentito l’Appennino tanto nervoso sotto gli zoccoli. La natura non se ne avvede, il sole di oggi è una carezza, le radici cospirano sotto la neve. Cosa mai ce ne faremo di questa volatile empatia è domanda che, insieme al resto e tutto ciò che riteniamo più prezioso e intimo di noi stessi, forse qui si disperde e si svilisce soltanto. Comunque, si ritiene certo che voli. E nessuno può farsene niente di ciò che vola, se non lasciarlo andare. Vai.
Guerra
Per chi ha più di 300 amici, facebook è una guerra. Non ci credete, non ve ne accorgete ma è una guerra. Su chi è più *qualcosa, e su come essere meglio *qualcuno. Guerra all’ultimo presente: nessuna possibilità di vittoria. Zuckerberg però non vi ha mica costruito una casa ciascuno in cui fare abitare i vostri nipoti e lasciare tracce di voi nei cassetti dello studio con la finestra da cui in estate entra anche la scia del gelsomino. Mark se l’è cavata certo, ma con la sua invenzione non ha fatto la casa a nessuno. A nessuno, dico, con le sue mani. E questa cosa delle mani è fondamentale. A nessuno, con le sue mani ha fatto una casa davanti alla quale puoi farti fare una foto, stamparla e aspettare che ingiallisca. Eppure è ritenuto il padrone di casa nell’acquario blu. Casa senza mattoni, ma fatta di tempo: che ci metti tu. Una casa fatta da lui col tuo tempo, di cui non sei più padrone. Prima, lo abitavi in qualità di capomastro. Ora non più, per il solo vezzo di entrarci ogni giorno. Così si perde una guerra e si muore capendo tardi una grande verità: se si inizia a definire reale una cosa, significa che ce l’hanno rubata.
Prendetene tutti
Chi non può fare la comunione può venire lo stesso per una benedizione, incrociando le braccia sul petto. Così il celebrante stasera, dopo un’omelia scialla de noantri in cui raccontava un Dio che ci ha già salvati, ci ama e davanti ai sensi di colpa minimizza ma ‘dde che? Così il celebrante, poco dopo aver consacrato il pane dicendo Prendete e mangiatene tutti. Così il celebrante stasera, senza accorgersi che forse li hanno creati loro quelli che “non possono” fare la comunione. Così il celebrante, più magnanimo di Cristo nel concedere un sostitutivo a compenso del diniego sacrilego che ha retto il più longevo esercizio di potere nella storia. Così il celebrante stasera, alle orecchie ancor più orridamente chiuse del popolo sornione che non ha spaccato l’altare, rovesciato i cesti dell’offerta e spezzato il microfono di quel piacione davanti all’ipocrisia più evidente, la contraddizione più plateale, l’impostura più offensiva, la banalizzazione – il male, cioè – più rassicurante. Ecco, rassicurante. Allora ho sentito una voce, quasi a giustificare quella bestemmia, che ha detto: Ma tu li hai visti gli uomini liberi? Sono tutti impazziti.
La Terra che brilla
Questo ghiaccio la sera tardi in balcone mi fa credere che la Terra sia più simile qui che altrove alle stelle viste in cielo prima di andare a letto. Lassù, dove pungono gli astri è il gelo più assoluto. Così mi figuro che dove è più freddo artico sia sempre anche più luce riflessa nel cosmo e, da casa mia a quel buio sordo, in queste notti guizzano più vivi i bagliori terrestri.
Resina
Nel tardo pomeriggio di ieri eravamo in giardino, la villa tremava di freddo e mentre parlavamo, ormai davanti al cancello per l’ultimo saluto, abbiamo sentito tutti e tre un odore. Sembra ceretta, hai detto. E io, occhi lucidi sotto gli alberi obliqui e mutilati dall’inverno: questa è resina. La voce mi è uscita di istinto, prima di quanto servisse a capire se avevo detto bene. Ma non potevamo certo sentire odore di ceretta all’aperto, distanti dalle case con le finestre chiuse al gelo. Doveva essere resina. E lo era. A lei quelle mie parole inconfutabili sono rimaste attaccate, nell’aria che ci nutre dal cancello fino alla parete della montagna. Stamattina che ho paura di volare galleggiano ancora, sotto le nubi sparse di Mondello, e lo faranno anche stasera al solletico della nebula piovasca tra i rami neri e l’aura sempreverde, profumata, della nonna: madre musica di nostra madre, terza compagnia. Quando sarò lontano.
Immersione
In due giorni sono passati trent’anni. L’altro ieri è stata l’Epifania, oggi il battesimo con cui Yeshùa inaugura la sua vita pubblica. In mezzo, i suoi trent’anni di vita nascosta. L’impertinenza del tempo liturgico rispetto a quello laico è stupenda perché regola un immaginario autonomo e un tale sproposito di attività umane ovunque da assegnare alla cronologia devota dignità pari a quella del calendario secolare. Allo stesso modo io vivo, tra le sponde di un tempo romano e uno palermitano, e i pochi giorni concreti che precedono di ancor meno ore spirituali il passaggio da una riva all’altra sono come l’emersione di una vita nascosta che affiora sotto il cielo un istante per immergersi nella cronologia dell’altro tempo. È un istante raro ma preciso, come quando avvisti il dorso di un cetaceo che sfiora il pelo dell’acqua per passare da una colonna di mare all’altra. Un istante che in me può durare anche un paio di giorni, quello che precede una partenza e quello che segue l’arrivo nell’altra sabbia. È un sussulto. Come quello che nell’esaltato rifiuto di Giovanni a immergere suo cugino nel Giordano trasforma il mondo intero nel grembo magnifico di Elisabetta. L’immersione di Yeshùa nel nostro fiume chiude il tempo di Natale e apre al tempo ordinario. Ogni passaggio di tempo dura un istante lungo giorni, mesi o anni: spero che tutta questa vita non mi sia nascosta per sempre.