Ardere

Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture? Yeshùa non se n’è andato: stava per farlo ma i viaggiatori l’hanno trattenuto per la sera. Rimanendo, poi, alla lettera è solo diventato impossibile da vedere e i due, che all’inizio litigavano sulle cose accadute, alla fine si trovano col cuore caldo e convertono la rotta. Non arriveranno mai a Emmaus, il luogo mancato più famoso del mondo, ma faranno ritorno alla città del tempio. Oggi anche io sono tornato al tempio, che qui a Roma mi pare in mano a presbiteri scelti in base a una scala carismatica rovesciata: più innocua è la loro retorica, disincarnata con gran mestiere in automatismi rodati che non danno fastidio alla comunità residua di anziani, più in alto arrivano nella capitale di tutte le parrocchie. Oggi però ho sentito pure io ardere il cuore. Saranno state le letture, vive, tutte scelte dal libro nuovo e non dal vecchio. Ogni tanto (dico, non sempre) mi capita di rompere il gesso dell’omelia alienante e così, nell’intimità di oggi, un calore mi ha fatto accostare le mani al petto nel discernimento fra ritualità e memoria. Un ardore che mi teneva sveglio, presente a me stesso, senza più cura o pena per il gesso che di certo aiuta a evitare le fratture imposte dalla libertà, tanto raccomandata ma dolorosa da abbracciare. È stato allora che ho sentito veramente di concelebrare la messa, come è pure definita dall’istituzione l’opera di ascolto e risposta dell’assemblea, immaginando poi – tornato a casa – di rispondere così alla domanda, com’è stata la messa: celebrazione scarsa, concelebrazione potente. Emmaus può aspettare.

Ladri

Andarsene via come ladri, ratti e silenziosi, improvvisi, lapidari di congedo, né guardare negli occhi i rimanenti, né voltarsi per vedere la stanza o il pianoforte un’altra volta, la luce che ora entra nella veranda. Ecco l’unico modo per lasciare i posti a cui siamo più legati e non ci abituiamo mai a salutare. Il luogo che attende i ladri, tuttavia, non può essere una casa: prima o poi dovrebbero lasciarla allo stesso modo. Perché i ladri sono ladri, loro dalle case fuggono e il luogo che li attende è sempre un covo, un rifugio, un nascondiglio. Casa, i ladri non ne hanno. Chi allora partendo lascia una casa per andare in un’altra casa, non può andarsene via come un ladro. E questa impossibilità crea lo strappo che riapre la pelle sempre nello stesso punto a tutti gli onesti che abitano in una città diversa da quella in cui sono nati. Io sono una persona onesta. A volte, faccio di tutto per mascherarmi da ladro. Un giorno mi arresteranno per reato di vita altrove.

Oggi non ho risposto

Alle soglie del terzo disastro mondiale, nella Terra dei muri che si alzano e dei ponti che crollano sulle autostrade, migliaia di cuori pulsanti continuano a chiamare ogni giorno da Milano a Palermo per proporre contratti vantaggiosi di qualunque servizio, chiusi nelle loro cellette di plastica, davanti a un segnatempo che scatta quando al numero composto risponde una voce, che è la voce di un loro simile, con la stessa paura della guerra e della morte. Gli squilli a vuoto del telefono, oggi, per me hanno fatto da sfondo al miraggio della luce che ancora filtra da certe fughe di nuvole come da un pavimento sconnesso, come uno specchio paziente che trattiene il diluvio aspettando di riflettere l’ultimo miracolo o la ripetizione di quello più grande. Gli uomini che si guardano sono altri uomini.

Agli orti

Muovono visita agli orti
gelati dal globo lunare
poi che l’ultimo vespro
ha fatto lavanda alle piaghe
ultime degli uomini
mondi amati sino alla fine.
Il pane e il vino compresi
nel limite dei corpi
costeranno a uno l’orecchio
a un altro il rimorso,
e i grilli dileguano in canti
il riscatto sognato.
Ma sotto i chiari d’ulivo
resta la polvere alzata
dalle calighe dei soldati
e dalle ginocchia
che hanno afferrato
il suo nome per sempre.

La poesia è un fatto

La scrittura è quasi sempre e solo un dito che indica la luna, il fatto, l’evento perché gelosa dello stesso e, più che il mare, la luna o il sole, racconta la smania di sostituirsi al mare, prendere il posto della luna o del sole e i globi intorno intorno. Quando invece diventa un fatto, è poesia. La scrittura che diventa fatto è poesia, voce e musica, fa nascere alla luna un dito per indicarla, dalle acque un’isola asciutta per ascoltarla, qualcuno crederà di poter anche mangiarla perché sarà pane che risana le viscere, ti sfiora i capelli, riscalda in un fiato. La poesia realizza il vero sogno della scrittura. Ma questo lo sai. Vero che lo sai? Se l’hai visto accadere, lo sai. Non per ciò che è scritto qua, dunque, ma per quello che è successo altrove. In te, che sto cantando.

Ti ho vista

Uscendo di casa poco fa, ti ho vista sui tetti e sui pini che gemono nell’aria quadrata dei cortili e finalmente ho capito che fai tu in ciel. Impazzire, mi fai. E accorgere adesso che è come una tempesta ormonale l’improvviso desio di trasfigurare la tua perfezione muta in mille e più rivoli scomposti di poesia eterna, non perché degna di te, ma perché in eterno rinnoverei ogni sera la prova di agganciarti all’amo coi miei fili terrestri, finché guardarti non mi farà più sentire questa tigre in gabbia e rotta di smania per te, bella indifferente particola vietata alla bocca degli uomini, amante dei lupi, signora dei boschi.

Rimastare

Il sole bussa alla portafinestra e fa entrare in cucina le api che volano a cercarmi fiori intorno alla testa, il miele d’autunno è finito ma loro non sono venute per me. Dicono, siamo scappate dai calabroni sul glicine, appena lasciata la casa di cera per trasformare l’oro in primavera (ieri mi hai detto la vita è promessa di vena in miniera). Presto anche noi voleremo sull’onda colore del vino, da questa terra all’altra, isolata da acque metalliche e sale che brucia la faccia alle persone. Sentiremo le loro voci di conchiglia dura alle maree più violente e io avrò un occhio migliore, più forte di adesso, capace di trattenere la pioggia se, partendo di nuovo, una bimba ci parlerà come ha fatto col nonno una sera, chiedendoci ancora un po’ di rimastare.

Lamento su Idlib

Chi uccide bambini non è mai stato figlio, pur essendo nato. Non ha mai avuto un figlio, pur essendo padre. Non ha mai amato, pur avendo abbracciato. Non è mai stato ricambiato, pur essendo sposato. Non è mai stato umano, pur essendo uomo o donna. Non ha mai fatto altro che un suicidio, pur avendo massacrato il mondo intero dall’alto. Sparisce malgrado continui a sorridere, a parlare; è cancellato nell’irrecuperabile abisso che fischia ai piedi della Geenna, malgrado uccida ancora e ancora e ancora spietato. E ancora. E la vita di tutti dovrebbe essere quella delle api che, usato il pungiglione, smettono di volare, di respirare, di fare male. Invece siamo delle vespe, il mondo è il nostro nido. Muoiono bambini.

Impressione di Lazzaro

Lazzaro è morto […] il morto uscì. Ieri non era la prima volta che sentivo il racconto di Giovanni sulla risurrezione dell’amico di Yeshùa. Per la prima volta però ho sentito di aver reagito nel modo forse più autentico: mi sono impressionato. Mentre l’impiegato violaceo nascondeva con frasi jolly il fatto di non sapere cosa dire, andando oltre la pericope in un’omelia sciolta e buona per ogni domenica di ogni anno su ogni passo diverso del Vangelo, io vivevo un attrito scandaloso, quasi un rifiuto. Rifiuto di un gesto che avevo sempre e con serenità catalogato nella distaccata sfera del sovrannaturale e invece ora per la prima volta sentivo a pelle innaturale, nel senso di “contro natura”, non più a me sovraordinato ma, per diretta contrapposizione, sullo stesso mio livello attuale di esistenza. Yeshùa ha fatto un gesto contro la natura che ci fa nascere e vivere con un senso della fine onnicomprensivo, che detta la morte fisica a tutte le specie animali e vegetali. E l’ha fatto proprio un attimo dopo la massima espressione invece della sua umanità, nella rabbia e nel pianto e nella commozione e nell’amore per le due sorelle e l’amico morto. Per questo mi sono turbato e sentito quasi tradito: dalla perfetta immedesimazione al massimo della estraneità, per la risurrezione di un morto, evento non più sovrannaturale, ma innaturale, contro natura. Pensando allora a tutte le categorie di persone e di esperienze che la Chiesa continua a definire “contro natura”, mal giudicandole e pretendendo di escluderle dalla sua comunità, inizio a chiedermi se non siano proprio queste persone e i loro scandalosi percorsi di vita, i più vicini di tutti all’evento che ieri mi ha dato tanto timore e tremore.

Grazie per l’amicizia

Nell’antichità tribale poteva piovere a seguito di una richiesta danzante, ed era cosa buona per estinguere la sete del terreno. Poi la pioggia si è fatta cosa negativa da associare al governo ladro, nella Firenze che tassava il sale pesandolo sempre nei giorni in cui era gravato d’acqua piovana. Oggi invece è il fisiologico risultato di uno sfogo del cielo che, periodicamente, non riesce più a trattenere nelle nuvole tutte le volte che qualcuno scrive sulla bacheca di un nuovo contatto “grazie per l’amicizia”. Rendetevene conto, smettetela e non pioverà più, mai più la domenica, lo giuro sui miei jeans.