Assurdamente impreparato

La regola che mi sono dato qui – non scrivere mai due volte lo stesso giorno dell’anno, fino a completare 365 esagerazioni e chiudere il blog – sarà strappata ogni volta per il mio compleanno. Essere a mezzo cammino è già un’idea che stanca e si aggiunge alla ben più onesta fiacca del corpo: oggi cerco un altopiano per riposare un po’, prima di continuare la salita. Che regalo vorrei? Imparare i nomi delle piante in natura, saper riconoscere l’intera gamma dei volatili e decifrare ogni tipo di orma in un bosco; parlare e leggere le lingue del mondo, avere occhi e mani facili su qualunque spartito; fissare la voce dei miei canti. Il tempo veste di grazia gli anni lontani, con la puntuale illusione che ci fa sentire di avere avuto un’infanzia più fortunata di quella che si offre oggi ai nuovi arrivati. Mi chiedo se le generazioni dopo la mia potranno mai persino accorgersi del fiume impetuoso, avendo bevuto da sempre l’algoritmo cieco del presente virtuale. Lo sanno che la vita è cercare un incastro fra tempo e occasione? Io mi auguro di non dover abitare la parola “ormai” e di sentire sulla pelle il mio καιρος, fuggendo il male di trovarmi un giorno assurdamente impreparato a quell’esclusione dalla vita degli altri che è la ripetizione della propria, come si definì un maestro nella selva della sua realtà.

L’occasione

La scrittura è l’occasione che non ho parlando. E non perché sia timido o non disponga di uditori, ma per una questione di composizione. La scrittura si compone, la parola si suona. E dare alta voce a quello che scrivo mi imbarazza: perché non scrivo come parlo, mi sembrerebbe uno spreco, parlerei. Ma toccando appena l’aria, quella parola sarebbe già diversa dal pensiero che l’ha spinta e subito vorrei ritrattare, aggiustare, integrare – indugiare anche, se parlare è stare in presenza di qualcuno. Si scrive invece sempre da una distanza e per l’utopia di non dover ritrattare. In questo, ho sbagliato epoca. Oggi si rincorre molto un effetto di oralità sulla pagina, in linea con la mutazione della scrittura in fatto volatile: scripta volant, nei cieli della fibra ottica o per l’etere finché c’è campo di ricezione. Se dovessi cesellare qualcosa da dare a un pubblico in forma vocale, io invece canterei. Perché il suono che tocca l’aria in guisa canora non tradisce la forma concepita prima di darlo al sole, non impoverisce né modifica o fa scadere il pensiero (il mistero) in essa contenuto; tanto che ogni tipo di deviazione ha il nome di stonatura, e si nota. I miei trentadue lettori avranno ormai ben capito che amo la musica. L’occasione che raccolgo qui, invece, è del mio pensiero che venga eseguito da occhi altrui, nel silenzio del lettore. Accenda lui le connessioni del mio dettato, nella stessa assenza di suono fisico in cui io ho scelto e salvato ogni parola. Questa è la gioia dei compositori che, più di ogni esecuzione personale del suono, danno la loro vita alla scrittura di quel suono.

Le mie dita

Ieri sera in balcone, mano in tasca, ho sentito stringere un po’ il mignolo dove in genere tengo l’anello di nonna. Ma non lo avevo, era posato sul comodino accanto al letto. Sarà che ti penso sempre e ieri ho capito che ormai il mio mignolo sinistro è tuo per sempre. Poi però ho ricordato che tutti usano questo dito per misurare la parte più piccola in termini di qualità, come: Allevi non vale un dito mignolo di Bollani. E mi sono detto, no. Lei vale tanto. Ida, che mi comunicava la sua vita al pianoforte, dove il mignolo serve a cantare le ottave periferiche e inarrivabili, le più remote, sognate dalle altre dita che balzano a cavare anima da altri tasti. Così ho apprezzato la qualità unica di ciascun limite della mia mano, titolare delle occasioni che posso cogliere ogni giorno del tempo breve. Andare lontano (mignolo), dire a chi appartengo (anulare), toccare il profondo alle cose (medio), puntare l’ultimo orizzonte (indice), agguantare i sentimenti fuggitivi (pollice) – mi prendi la mano, accosti il dito al mio che gli corrisponde e scopri di nuovo che sono uguali, ti diverte ogni volta: vediamo, di chi è questo? Nostro, nonna.

Palomar

Ieri sono andato a letto tardi e, prima di spegnere il lume alle tre, lento e grave come gli occhi miei di sonno, m’è venuto un pensiero: la cena di ieri con gli amici è stata carina. Era vero, se non per il fatto che alludessi a una cosa avvenuta quel giorno stesso, che solo non avevo ancora dato a Morfeo. Sentivo netta l’appartenenza di quella cena a un giorno ormai passato, ma non lo registravo come archiviato perché ero rimasto sveglio. Era ancora un giorno aperto, lo stesso, ma passato. Niente di strano, capita a tutti nella vita. Per tutti, cercare di capire dove finisca ieri e inizi oggi è come osservare il mare cercando di isolare un’onda da tutte le altre e distinguere, da quella precedente, la gobba successiva che rimbocca sulla vasta tavola d’acqua salsa. Per tutti, il sogno è l’unico mezzo che abbiamo per isolare le onde del mare e intendere la differenza tra ieri e oggi: se oggi è diverso da ieri è perché ho sognato; se io invecchio è solo perché esistono i sogni, che mettono ordine alla veglia e inventano il tempo che passa. E lo fanno senza farsi notare, spesso senza farsi ricordare la mattina, agendo per molti nella notte simile al buio che avvolge il traduttore agli occhi di chi legge un autore straniero. Volevo solo annotare questa cosa che capita a tutti e io non smetto di sapere.