I salvati

Aspettano qualcuno che venga a salvarli. Contro ogni retorica del volontarismo, contro ogni invito a metterci del proprio, zero faber fortunae suae. Immobili aspettano. Senza tendere la mano a chi offre il braccio, né soffiare appelli a chi passa accanto. Aspettano fermi e di peso che li prendano. Come statue di sale, diverse da quelle finte che salutano al primo obolo per ridere ai turisti. Aspettano e basta, niente, fatti sale che non respira. A volte non aspettano più neanche d’essere presi senza invito, fatti oggetto di rimproveri e commozioni, di carezze; a volte si perdono e basta, mirando la culla fatta dal vento alle verdi cime degli alberi. I salvati, da loro stessi sono salvati: come pretendere che facciano loro il primo passo, magari il secondo, per convincersi a sciogliere il sale che li tiene sotto? Servono dieci cento mille passi, fatti prima tutti e solo da chi decide di pescarli, mentre loro stanno morti, posati, fedeli alla radice di loro stessi. E la pesca è una danza di cervici dure e sparizioni, preludio a cento ritorni che scavino luce utile a farli fidare, farli sognare senza tema di cadere. Tutti sono invidiosi dei salvati perché niente, dicono, gli è dovuto: questa feccia è rimasta ferma senza chiedere, collaborare, né volere. I salvati hanno voluto solo aspettare, persino più di quanto hanno voluto essere salvati. Ma è questo il loro merito più grande, inarrivabile, l’attesa ferma contro ogni canto di sirena. E il merito vale ai salvati lo stacco dalla pelle mondana tormentata di grigi, natura tradita, psiche aggirata, cuore ignorato, budella ritorte, fronte abbuiata, fiato gravato, schiena incurvata. Qualcuno, di carne fiato e presenza, li ha salvati.

Figurine

Vivere è staccarsi dalla pelle degli altri e mutare in figurine di album che i compagni di una bella avventura, ma conclusa, guardano sorridendo solo quando liberi di prendersi una pausa. La matita si tempera, se vuoi usarla ancora. Così la vita: conservi i trucioli sì, e li guardi quanto ti pare, ma se accetti di vivere nel tempo, devi accettare la matita per fargli la punta di nuovo. A volte sembra pure che quei compagni abbiano usato la gomma sulla vita disegnata insieme, e alle tue spalle si spalanca l’orrido spreco di un foglio rimasto bianco. Ma no: in quei casi, è solo che non avevano una pausa per sorridere alla figurina che sei diventata per loro. Capirlo non è mettersi l’anima in pace e tirare dritto. Forse, anzi, è sentire ancor più la mancanza di una pelle, i suoi difetti unici, l’odore che ci ha lasciato addosso. A volte ci sembra di essere definiti più dalle nostre rinunce, che dalle scelte. David scrisse, mi manca chiunque; Billy cantò, mi manca tutto quello che non sarò mai. Ma siamo chiamati a uno strabismo costante, se non vogliamo dimenticare di essere irrimediabili ed entrambe le cose, scelte e rinunce. E se la felicità, più che un istante del caso in cui farsi cadere, è un’opera da realizzare nel tempo che riconosci come unico orizzonte di vita, ricorda, figurina mia: le opere richiedono fatica. A volte serve solo una pausa, e la gioia di scrivere cose banali usando matite e figurine. Magari un giorno scoprono che è questo, il più autorevole indicatore di felicità.

Fatti vivo

Figlia dell’inverno / la lettura / offre la storia / e il silenzio, / il nero del legno / e il bianco della neve. / Il silenzio tra le parole / permette alle parole / di procedere / e come il silenzio / degli animali / e dei ricordi, / attivo e fertile, / non cospira / con l’infelicità / di dire sempre / solo quello che sai già. / Ho bisogno delle parole / degli altri per scandagliare / le mie. Ascoltando / scrivendo / scopro cosa so. / Le parole / sono la casa del mondo / lo straccio che lava / le cose. / Leggendo / più che comprendere / faccio / scioccamente parte / della dolcezza d’essere. / Leggo per abitare / scrivo per traslocare.

Chandra Livia Candiani, La lettura da Fatti vivo (2017)