I letti singoli delle mie stanze di ragazzo, dove dormo ancora se passo la notte senza compagna, qui in villa come a Palermo, hanno tutti un versante addossato a parete. Una delle mie più care memorie fisiche è legata a questa disposizione: incastrare la fronte tra lo spigolo del materasso e la fresca pelle del muro, sia quando cerco un appoggio negli attimi in cui vacillo ancora tra la veglia e il sonno, sia dopo essermi addormentato, quando ormai nuoto nell’alto mare aperto dei sogni. La mattina mi alzo e davanti allo specchio mi accorgo di avere dei frammenti di intonaco appiccicati all’angolo della fronte. In effetti, guardando il letto, la parete all’altezza del cuscino è quasi del tutto scrostata e, anzi, nell’evidente cava allargata da questo lavorio notturno si notano anche degli strati intermedi tra il primo colore liscio e gli ultimi grani del cemento, come se in quel punto si mostrasse l’anatomia cutanea della casa nei livelli di epidermide, derma e ipoderma della stanza. Fino a stamattina ho trovato una nuova parte di muro sulla via del sopracciglio destro, come se ogni notte il nido concepito fra materasso e parete subisse una minuscola variazione di altezza. A forza di sognare, mi sono detto, finirà che lo abbatterai questo muro.