La scoperta

Alle ultime ore del giorno, ricevuto un messaggio da un amico, ho scoperto la velocità del mio bene: 900 km luce. A tanto viaggia, quando è mosso alla riva che nelle viscere mi apre gigli da sempre. Un attimo dopo ho avuto anche la certezza che la velocità del mio bene è variabile: dovesse raggiungere un cuore più lontano, di transito in Islanda o radicato in Patagonia, aumenterebbe dei chilometri luce utili ad arrivare fin lì in atto di folgore. La corsa del mio bene, inoltre, non dà il fischio del vento né il tuono degli aerei supersonici, ma fa la musica lentissima che oscilla tra le stelle e trema sulle pianure del tempo. È la cosa più strana del mondo, del tutto controintuitiva: il suo passaggio è fulmineo ma produce un suono che rifrange in eterno. Arriva a destino in petto agli amori come il mare, aprendo faglie di sale sui cementi spaccati dai flutti, ma poi resta nell’aria a galla colmando la quinta dimensione. I giri delle sue note vengono presi da attrazioni sempre maggiori verso il centro, dove una porta si apre al mio ritrovamento futuro da parte di figli nipoti e discendenti a seguire innumeri come galassie.

Fiamme

Quale vita senza incendio? Chi non sa la paura delle certezze crollate, la violenza privata dello stare al mondo? Ieri le fiamme hanno divorato il bosco di querce che dal milleduecento reggeva il tetto a Nostra Signora di Parigi. Le illuminazioni rosseggiano imprimendosi in fila nella memoria: l’altro ieri era l’orlo infuocato del buco nero, ieri la guglia ardente del monumento. La vita però non è un museo dal clima a tenuta stagna. Siamo fatti di temporali e schiarite, i primi senza riparo, le seconde pronte all’amo. Il sole-pesce guizza nel celeste, ma è vero: al vento molte lenze non superano gli aquiloni. Finché una mattina, il tiro alla schiarita, ormai fatto anche solo per gioco, andrà oltre la carta e allora mi vedrai tornare a casa con la stella. Sarà un giorno come gli altri. Le fiamme di ieri non saranno più maledette, fonderanno anzi la nostra storia dando forma smagliante alla buona reinvenzione di noi. Negli occhi avremo un furore, misto di ottusa fiducia e gioco fine a se stesso, compagnia mai respinta del tutto e desiderio di vivere insieme le bufere, penetrare la paura scarnificante e la solitudine fino al loro fondo bucato. Al bacio della stagione per il feroce rinnovo della vita, unico possibile epilogo in natura, e in Nostra Natura di Uomini.

Nuova alba

La Terra è un globo oculare sgranato sull’universo. Una rete di radiotelescopi sparsi in tutto il mondo ha generato un telescopio virtuale con risoluzione pari a una lente del diametro del nostro pianeta. Si chiama EHT (Event Horizon Telescope). Con quest’occhio celeste gli scienziati hanno ricomposto e diffuso due giorni fa la prima foto di un buco nero. E nero il buco resta: l’interno non si vede. Si vede invece il grido della luce che divampa sull’orlo circolare prima di cadere nell’orrido ignoto dello spaziotempo. La caduta ritratta nella foto risale a 55 milioni di anni fa, quando la Terra passò all’Eocene, la nuova alba: da noi la collisione tra continenti innalzò le Alpi facendo emergere pure la Sardegna, la Calabria, la Puglia, parte della Campania e del Lazio. Tanti anni ha dovuto aspettare la luce per consegnarci il suo grido sull’orizzonte degli eventi. Nemmeno lei può sottrarsi al regime dell’attesa, alla pazienza di un viaggio per mostrarci la nostra nuova alba. Perché allora non dovrei aspettare io, che a lei miro e di lei cerco ogni manifesto? Se ancora non si vede, in fondo ora so con fisica certezza che la nuova alba è già sorta. Era quella mattina, la nostra caduta, il grido comune sull’orizzonte degli eventi.

Non ce n’è uno

Non ce n’è uno che sfugga alle ferite. Per tutti e più volte nella vita, la notte si accende come un giglio di sangue impalandoci davanti a una cruna. Allargami ad accogliere il pianto e la mia debolezza.
Poteva andare tutto bene fin lì, oppure no: magari il fulmine cade annunciato da un lento cumulo di nubi. L’esigente libertà di cui siamo rivestiti ci chiede comunque se passare dritti per la strettoia o restare al di qua della tagliola a distoglierci creando nuovi fantasmi. Davvero non ce n’è uno che sfugge. Concedimi la grazia della resa, la fioritura della pelle che muta.
Ma io ho la bellezza! dicono molti. Ed ecco, la ferita di questi cercatori di protezione è sanguinolenta come un assedio, è anzi la più dolorosa, perché l’incanto estetico scava un vuoto al centro che rinnova solitudini di ferro, limiti a una relazione di carne con l’altro, il diverso da sé, unica e difficile speranza di vita. Di essere sconfinato, *sottile e forte, stremato e forte, debole e forte… forte*.
Solo questa apertura garantisce una primavera dopo il morso della cruna, non l’oblio della ferita ma il suo opposto: l’arto mutilato si integra nella nostra aura dilatando l’aria che ci accompagna, nutrita dalle nostre scelte. Se si sceglie di ritrovare la vita sfuggendo ai fantasmi, certo. Almeno a quelli. Perché alle ferite no, non ce n’è uno che sfugga. Siamo tutti creature fino alla fine.
Ma insieme si può stare davvero.

* da questa meraviglia di Eufemia.