Pezzetti

Si chiude un anno importante come pochi altri. A parte il contagio mondiale di paura e l’ibernazione di ogni vicinanza umana, è nato mio figlio. Al centro della prima ondata, il 30 marzo, il mare si è aperto formando due alte pareti per darci all’asciutto invincibile di una vita in arrivo. Dopo nove mesi, cifra che mette in pari la sua durata intra ed extra uterina come altre due pareti sospese, mio figlio si diverte a stracciare la carta. Per questo gioco, oggi ho recuperato due dei tanti foglietti che, ormai da quasi un anno, stacco ogni mattina dal calendario e conservo per scriverci appunti sul retro. Via il primo, in mille frammenti poi gettati a terra; via il secondo, graziato da pochi strappi ma sempre fatto a pezzi finiti sotto il seggiolone. Ci siamo affacciati a guardarli. Non so cosa provasse lui ma, intuendo ancora la curva di un numero o la lettera di un giorno della settimana, io ho avuto un’illuminazione. Tienili tutti, ho pensato, falli a pezzi e resta solo tu qui, col tuo dentino e mezzo scoperto quando sorridi anche con gli occhi. A quel punto però era l’ora della pappa, e anche questo mi è parso illuminante, giusto: i bisogni primari e la corporeità spazzano via ogni palco favolistico della vita. In fondo, davanti a quegli unici due giorni eliminati dalle sue piccole mani curiose, l’intero calendario era già quasi del tutto sbiadito.

Pupilla

Quello che sta dietro il sole prima non lo vedevo, ma ho passato un paio di stretti sul canto delle sirene alla facilità dell’abbandono. E sono caduto, nessuno mi aveva legato. In qualche modo sono tornato, ma non sono più come ho iniziato. Per vedere cosa c’è dietro il sole l’anima si trasforma. C’è un momento in cui la distanza è giusta, la luce ti fa il pieno di grazia, il calore è un guanto sulla pelle, non devi nemmeno socchiudere gli occhi. Ma non smetti di andare avanti. Allora succede come al foglio che si accartoccia e speri che un lembo fluttuando arrivi dietro la stella ancora integro, benché annerito su tutto il perimetro. Quel nero che ti circonda è la porta aperta sull’altra parte. Così arrivi dietro il sole e vedi che esiste luce senza rimbalzo celeste o atmosfera che la espanda per rinnovare la creazione. Esiste luce che non dà vita e si perde nel vuoto che ospita la sterminata materia alla deriva nel buio. Volevi sapere cosa c’è dietro il sole e ora consumi il rimorso più amaro: ti sei avvicinato troppo e hai esaudito il desiderio, passando dall’altra parte. Il varco resta aperto, si può benissimo tornare indietro – se parlo è perché non sono rimasto lì. Ma da allora, anche nel giorno più tiepido e gentile, io fatico a ignorare la gigantesca pupilla nera che ho visto dietro il sole.

Avvento

Nel buio cadono i confini, non sai dove ti finiscono le mani, non vedi cosa rischia di romperti il naso a un passo né sai dov’è il ginocchio se non rovini su una mezza altezza ignota. Nella notte, l’unica è chiedere una relazione, allungarsi alla cieca per trovare i confini di qualcos’altro e capire i tuoi. Se rinunci ad avere confini però e non tocchi niente, se resti tanto calmo da sopportare il nero, sgranando gli occhi nel nulla puoi anche immaginare che le valli si alzino e i monti e i colli si abbassino, che il terreno accidentato diventi piano e quello scosceso arrotondi in una vallata. Se non tocchi nemmeno il tuo corpo e resti tanto calmo da sopportare il vuoto, chiudendo gli occhi puoi anche favolare di indossare peli di cammello chiusi da una cintura di pelle attorno ai fianchi, e di trovarti in quel deserto da così tanto che non ricordi più quando hai iniziato a nutrirti di cavallette e miele selvatico. Allora saprai che qualcuno viene dopo di te a scioglierti il calore necessario sulla testa, per illuminarla. È tuo figlio. Una voce griderà ai quattro angoli della terra di consolarti, ma il chiaro sarà già tornato e tu non avrai davvero più bisogno di essere consolato né di raccontare cosa sei stato nella notte che – solo ora lo sai – consumava un lungo, lunghissimo avvento.