Le foto nel cassetto, quelle con la data scritta dietro, magari un commento – i magnifici! – vecchie di dieci venti trent’anni restano lì chiuse, nessuno le prende mai ma una volta, la domenica, solo una volta in tutta la giornata – e chissà quando: ogni domenica a un’ora diversa – vibrano come farfalle nelle scatole e nei raccoglitori o libere tra fili arricciati e ritagli di carta regalo, farfalle, chiedono di uscire e posarsi sulla mano ma lo fanno in silenzio, nessuno può sentirle, la richiesta si può solo decifrare da piccoli segnali: l’arcobaleno teso dai vetri del lampadario fino al divano; l’ombra della tenda che sventola sulla porta bianca come un sipario; l’odore di un mandarino sbucciato fra il dolce e il caffè; le note di pianoforte che dal palazzo antistante volano fin dentro casa; l’acciottolio delle stoviglie che qualcuno sta pulendo in cucina e altre epifanie disponibili come variazioni sul tema. Sono mille i linguaggi usati dalle foto nel cassetto che chiedono di essere riprese in mano ogni tanto, la domenica, nel corridoio spalancato da una vita intera e per quella sua interezza – già solo per quella, nel bene e nel male – vita meravigliosa.
Mese: gennaio 2021
Che bel momento
Dura poco ma se capita mi viene di sottolinearlo, come per istinto. C’è da dire che io vivrei sempre in penombra, vuoi per un fatto di atmosfera, vuoi per non strafare in bolletta. Eppure, abito con chi ai primi inciampi della luce – sia nell’acerbo pomeriggio, sia in un mattino di nubi – non reputa mai sufficiente accendere un lumetto o una piantana. Come se dovesse ogni volta infilare la cruna di un ago o decifrare una glossa medievale nelle tenebre più fitte, anche a mezzogiorno ripeto, al primo inciampo di luce lei accende il lampadario centrale della camera e, se disponibili, tutto il corredo di lumi abat-jour lampade da tavolo e compagnia bella. Capita però di andare da una stanza all’altra, la sera o in una giornata senza sole. Si spegne la luce del soggiorno e si attraversa il corridoio immerso nel buio o nella semioscurità che avvolge anche la stanza in cui siamo diretti. È lì che succede. Non riesco a frenarmi. Un brivido mi passa dietro la schiena e a mezza voce dico sempre, tra me e me verso di lei, come a cercare di convincerla, Che bel momento! Ed è un momento davvero. Il tempo di sentirle accennare un sorriso, negli unici istanti in cui quella bellezza può valere anche per lei, perché sa che fra poco si torna all’abbaglio da stadio, ma un sorriso sincero – dico – per la gioia autentica di una conferma, sul fatto che lei mi conosce più di chiunque e allora si gode quella piccola concessione alla mia mania per la penombra, e quell’istante, ecco, già si congeda, fa le valigie, stacca il biglietto per la terra dei pensieri felici: finito, il buio pastoso che confondeva i contorni delle cose non c’è più. Per un attimo, comunque, c’è stato. Il buio. Il buio che mi fa dire bello, di un momento al suo centro.
E vivete!
Era di Sabato, quando Gesù fece questo, e con lui c’erano moltissimi ragazzi. Ma uno dei Giudei, avendo visto quello che faceva, disse a Giuseppe: “Giuseppe, non vedi che il bambino Gesù fa di Sabato quello che non gli è permesso fare? Infatti ha fabbricato col fango dodici passeri”. Udito ciò, Giuseppe lo redarguì, dicendo: “Perché fai di Sabato queste cose, che non ci è permesso fare?” Allora Gesù, ascoltando Giuseppe, batté insieme le mani e disse ai suoi passeri: “Volate!” E quelli al comando della sua voce presero a volare. Poi, mentre tutti erano lì presenti, e vedevano e udivano, disse ancora agli uccelli: “Andate, volate sulla terra e su tutto l’universo e vivete!”
Dai Vangeli apocrifi dell’infanzia, Pseudo Matteo, XXVII.
Respiro
L’amore è il mio lungo respiro. Il suo ossigeno mi tiene in vita per cicli lunghissimi, da consumare anche mesi interi, tra una sola immissione e emissione di fiato. Sono due organi gemelli in moto continuo per recuperare l’aria, ridarla al cielo e ripetere lo stesso movimento. Difeso dal costato, l’amore presiede al senso della mia vita senza negare il vuoto tra la fine di un’emissione e l’inizio del respiro successivo. Se il corpo funziona così, ricordandoci che pure il bene maggiore – l’aria – deve rispettare il limite di cui siamo fatti, fermandosi ogni volta sulla soglia della nostra capienza alveolare, vuol dire che è necessaria anche la negazione di fiato, negazione di ossigeno, negazione d’amore, perché si dia un ciclo nuovo, ancora vita, ennesimo respiro, altra pienezza. Non riesco a immaginare uno che, fatto il primo respiro, corra a sostituire i polmoni dicendo l’ossigeno è finito, questi due non funzionano. Sa infatti che l’amore comprende anche il non-amore per alcuni istanti decisivi, in base al limite di ciascuno, al vigore dei polmoni, alla capacità del torace. Se il mondo è ancora in piedi, l’inatteso ci riempie l’amore d’aria nuova ma sono sempre i nostri polmoni, gli stessi fin dalla nascita. Come oggi, dopo molto tempo, abbassata per un attimo la mascherina, l’inverno mi ha messo nelle narici l’epifania di cos’era sempre stato camminare col volto aperto agli elementi. Ridandomi la voglia di un altro lungo respiro.