Il gran sudario

Il mare fa tutto quello che vuoi
al posto tuo, se tu non vuoi
ma sempre al caro prezzo
di una fine: non vuoi
smaltire i rifiuti, li dai al mare
e lui uccide l’ecosistema
non vuoi salvare i fuggiaschi
dalla morte e lui li annega
lontano dagli occhi, non vuoi
elaborare nuove distanze
dagli affetti e lui se ne prende
tutta la colpa seppellendo
le antiche relazioni con loro,
questo e altro fa il mare
per te, le tue cose e ti lascia
riposare se lo chiami
– mare, già come da un marmo.

Now small fowls flew screaming over the yet yawning gulf; a sullen, white surf beat against its steep sides; then all collapsed, and the great shroud of the sea rolled on as it rolled five thousand years ago. (H. Melville, Moby Dick, 1851)

L’ultima risorsa

Io prima non li capivo gli elogi all’oblio ricamati dai vari scrittori, li ritenevo capriole di vanità, aspirazioni doppie all’ambìto posto nel canone dei classici. Poi istituirono il diritto all’oblio, rispetto alle brutte storie famose che – finito l’interesse pubblico – non devono più essere citate, e allora iniziai a intendere l’immenso valore dell’oblio, il suo carattere di massima gentilezza e prova di rispetto assoluto per le pene sofferte da chiunque. Lo stesso principio di compassione guida il pensiero consolatorio ai miei cari quando la morte, nel loro caso, significa almeno essersi evitati l’ennesima prova del mondo, nelle sue brutture prevedibili o impreviste: sei morto, Lucio, ma almeno ti sei risparmiato un plotone di mortificazioni, per esempio, mi dico. Talvolta, poi, zittisco il desiderio che si perda la memoria collettiva dei tanti martiri trasformati in figurine eroiche a due dimensioni per le giornate ipocrite delle sfilate politiche, eppure morti lo stesso, irrimediabilmente e in modo atroce. In ultimo, inizio a desiderare l’oblio come ricompensa massima anche per i miei modelli più vicini, quelli con cui sono cresciuto, i nonni o i vari maestri dell’infanzia: straordinarie vite novecentesche da cui ormai pare impossibile tradurre indicazioni di stile per il presente, e il cui ricordo sembra appeso a un velleitarismo di maniera che ignora l’assoluta incomprensione che avrebbero per questi abissali tempi lontani anni luce dai loro e ci impedisce di vivere la vita – quel ricordo stiloso, dico – come fosse la nostra vita e i giorni sulla terra come fossero i nostri giorni, per l’inconoscibile che in ciascuno si fa raggiungere unicamente dal sole. Oblio, guardiano del “per sempre” dove raggiungeremo i nostri amati, proteggili da ogni manipolazione, ricompensali di ogni pena vissuta, risparmiami i confronti impossibili. Non sarai tu a levare i segni involontari e benedetti che mi porto addosso, nel concreto di gesti attitudini intuizioni e potenzialità, riconducibili alle mie radici migliori.

Tutti gli occhi che ho aperto

sono limpida oggi, come un vetro mai rigato dalla pioggia. Ho dimenticato cosa ho dimenticato. Guardo soltanto. Gli stormi passano. Attraverso la luce si raccoglie il tepore nel bosco sulla collina, nel mio corpo finalmente disteso – ho creduto al cielo. Alla linea spezzata dell’orizzonte. Come una sagoma semplice, una possibile forma di vita.

[Ecco l’ultimo testo della raccolta. Cammino da tempo nella scrittura di Franca Mancinelli, poeta aperta a frequenze vicine anche al mio orecchio, per la luce da cui a volte siamo parlati. Il suo ultimo libro, Tutti gli occhi che ho aperto, è stato già contato da più voci del mondo critico e non solo italiano, oltre a quella di Fabio Pusterla che le ha dato le Ali di Marcos y Marcos, lo scorso autunno. Sorvolando perciò ogni intento sistematico, estendo con partecipato disordine solo un altro invito alla lettura delle sue opere. Invito che inizia con il bianco, il viaggio, la voce prestata, l’epifania del vivente nella natura, l’invisibile come testo a fronte, l’idrogeologia franata di una terra interiore, il corpo in continua torsione liminare, fino al foglio cartilagine: sono solo alcuni tra i luoghi prediletti di Franca, che scrive iniziando sempre con la minuscola. Minuscola come il dorso anfibio di un dialogo col mondo che inizia e finisce oltre la pagina, di cui il testo è un’emersione parziale, traccia, residuo linguistico di una realtà più viva e grande di quella restituibile dalla pur volenterosa mimesi della parola inerte, compiuta; residuo che ha il valore contrario a quello dello scarto, però, e assume i tratti multipli dell’indispensabile. I frammenti posti nelle varie sequenze del libro hanno la densità del bagaglio essenziale, da mettere nello zaino prima dell’incessante migrare cui siamo destinati oggi, nell’alto mare discorsivo. Tutti gli occhi che ho aperto ha così l’andamento frastagliato di un’interferenza a rovescio, fatta di brevi chiari del bosco, piccoli nitori nel groviglio dell’accadere, vie di accesso a più di “un incavo del tempo” come – a volte cupo, a volte luminoso – è il silenzio tra le note, che per Debussy coincide con la definizione stessa della musica. Lo spartito che Franca ci ha restituito stavolta, sincope di prose lineari e versi poetici, ha una struttura circolare con una fine e un inizio che si ripetono.]

quello che posso lo scaldo al fuoco. Abbiamo trovato una pentola di buona fattura. Chi ha bivaccato qui, ora è già forse in Germania. Questione di tempo, di soldi e di fortuna. I soldi li ha presi la nostra guida. Beve energetici da una lattina nera. Ha il sapore di sciroppo per il mio bambino.

[Ecco il primo testo della raccolta, in perfetta consonanza con l’ultimo, perché nato dalla stessa esperienza: un percorso a ritroso compiuto da Franca nel tratto croato della “rotta balcanica” dal confine sloveno a quello serbo. La sua voce qui è prestata a una figura di donna che ha davvero passato quell’inferno, e il prestito poggia sulla grande capacità di apertura di questa poeta all’altro da sé, non solo umano, ma vivente in ogni forma. Di apertura in apertura, si doppia così la fine del libro tornando al suo inizio e alle 8 sezioni di cui è composto, numero che raffigura l’infinito. Eppure, ieri per la prima volta mi sono fermato sulla soglia di questo infinito, quasi trovandone un’uscita segreta, verso l’alto. Malgrado l’opera provi a eludere il concetto stesso di entrata e uscita dalle sue pagine, nel suo movimento di rigenerazione circolare, mi è parso per un attimo di riuscire a staccarmi e guardarla dall’alto. Dopo le note si trova infatti l’indice del libro.]

ogni giorno per il taglio utile
fanno un rumore secco
quando tornerai a vedere
ho visto gli occhi degli alberi
ramifico secondo la luce
era inerte l’aria
non è stato intagliato
ho iniziato a curvarmi
dai rami della specie
da qui partivano vie
entro nella pioggia come in un bosco.

[Ecco l’indice della sequenza Alberi maestri. Le poesie di Franca non hanno titolo, così l’indice si compone di tutti i primi versi. Leggere qui l’indice della raccolta è l’ultima forma di invito che estendo a tutti i lettori ancora fuori dalla poesia di Franca. È un modo per familiarizzare, se non altro, con il lessico: galassia di porte aperte sull’opera. L’orientamento in colonna sembra però suggerire altro, se non la possibilità, quantomeno l’invito al collaudo di una “super-poesia” sfuggita allo stesso controllo dell’autrice. È un’ipotesi gratuita, ludica e irriverente, ma la sua eventuale accoglienza non toglierebbe nulla al valore della poeta, anzi, forse ne rafforzerebbe solo il carattere di ospite prescelta dalla poesia per manifestarsi. Proviamo a leggere i titoli di altri testi come parti di uno stesso componimento che apre a connessioni imprevedibili. Sentite.]

dove lo scorrere di un fiume si interrompe
corro. E sto fermo all’incrocio
con la forza del niente
– stanno ancora tessendo
l’allarme non scatta, ma è un furto
la calpesti ogni giorno
è accaduto, resta: nel cupo
al centro il mistero, lo stame
nel chiarore d’inizio
lungo la rete di sangue asfaltato
ritorno, ascolto l’aria. E poi salto
punto gli occhi e si compie
negli occhi chiusi una sorgente
l’infinito dei morti

il morto si può fare: braccia aperte
è il giorno, il vento
tutti nella stiva premendo
alla deriva, nel moto continuo.

[Ecco l’indice della sequenza Luminescenze. Il rigo bianco è un’intera pagina bianca nel libro, dov’è disegnata una spirale come la sezione di un tronco, mutilazione necessaria all’apertura di altri occhi. È solo una proposta, continuo a guardare con sospetto la possibilità di leggere l’opera dall’alto, per così dire, sfruttando l’indice come chiave di accesso al mondo della poeta, saggio della sua coesione e coerenza interna. Il sospetto però non è come rivolto a qualcosa a cui non si crede fino in fondo. È come l’attesa di afferrare bene una voce, sulla cui esistenza non c’è alcun dubbio. La voce in continua rigenerazione da cui è parlata Franca, che nella cartilagine di pagina 29 dice:]

ramifico secondo la luce
alberi maestri
a spalancarmi il petto
con la forza che viene da un seme.