Un altro asse di rotazione

Quest’anno molte ville di famiglia non faranno da scenario alle feste dell’ultima notte. E sarà più languido l’abbandono al profumo di zagara per le arance nel vialetto che porta in montagna. Nell’ultimo pomeriggio, lo spiazzo in cima alla scalinata farà cassa toracica ai canti degli alati sugli oleandri e ai passi dei gatti sulle foglie. L’abbandono gremito di memorie sulle ore bambine spese lì a giocare aprirà cerchi nelle vasche del giardino che conosce i segreti della pioggia. Fino all’ultimo secondo della conta, niente romperà la linea continua tra il mare la spiaggia la strada la salita i balconi e il vecchio cancello. Se voci saranno, saranno lontane. I bagliori dei vicini petardi, allo scoccare della guerra contro il tempo, non varcheranno quella soglia: l’aria tra le sbarre ferrose farà scudo ai lampi spettrali, la notte arborea non sarà violata da luci scheletriche, nessun fiore dovrà rendere conto del suo colore, né gatto ridurre la pupilla soffiando ad arco nel traversare dalla giara al vaso cucito nel millennio scorso. Le ville deserte è come se avessero già trovato nel cosmo un altro asse di rotazione, e nella vita delle stelle altra danza per battere all’unisono con l’eterno.

All’incanto

La sera è questo vaso pieno di tutte le cose fatte e pensate durante il giorno. Ogni mattina il vaso è vuoto e lentamente comincia a riempirsi di nuovo con la prima azione. Ancora, fino a sera. Chissà quando, la notte, una fata passa a ritirare la merce e vende il carico all’incanto della stanchezza. Chi offre dieci, chi cento, chi mille, per farsi bello dicendo ho fatto, ho pensato. Così, dall’altra parte del tempo che di fiato e carne rimpiange ogni attimo tangibile, e dove è impossibile fare, impossibile pensare, i più ricchi fingono di essere ancora vivi e veri.

Mosse

Ho passato una vita a fare le mosse
e continuerò a farle
finché avrò questa casa del corpo
e mentre facevo le mosse
poteva accendersi un fuoco diverso
è stata prima una voce
di figlio, poi una freccia che gridava
tirata nel vuoto e ora
è la mossa del padre che mi fa
ruotare senza sapere mai
quando sarà che la parola padre
uscirà dal mio corpo
con tutto il calore che dicono
essa abbia avuto fin
dalle origini che alitarono il mondo.

Senza volto

Ho il corpo stretto in una rete di corde. Fra ottocento anni mi troveranno, mi chiameranno la mummia “senza volto”. Sono morto senza sapere nemmeno cos’è l’impero Inca, nel tempo a cui daranno una misura legata a un prima e un dopo che non conosco. Conosco la mia terra, tra la costa del mare e le montagne aguzze del dio. Mi troveranno in posizione fetale, le mani a coprire il volto, perché è così che noi seppelliamo i fratelli. Mi faranno esami usando magie che non immagino nemmeno per capire a quanti anni sono morto. Non gli servirà certo a intendere come ho vissuto. Troveranno anche queste ceramiche e queste pietre nella tomba scavata dai miei per nascondermi infinite lune. Un mio simile, con cui non so concepire altro legame che i nostri occhi quando guardano il mare, le piante o il cielo, proverà a viaggiare fino a qui e a questo momento risalendo il fiume del tempo, con la fantasia e l’aiuto dei suoi dèi, allontanandosi dal suo tempo per vederlo con la pietà che si deve a un giaguaro tormentato dai suoi stessi morsi. Mi vedrà in tutto lo splendore dell’essere ancora nel suo istante vivo e vero, ancora aperto.