Sapevamo di avere organi e vasi sanguigni, vene arterie e capillari ovunque, tessuti molli tendini e cartilagini, mucose umori e tutto il resto, ma c’era la pelle a coprire, difendeva l’interno dell’organismo e il suo esterno, cioè i nostri occhi. Sapevamo ma non eravamo consapevoli davvero di cosa c’era sotto e c’era sempre stato. Adesso invece io posso vedere il video fatto col cellulare a una donna che spazza il davanzale della finestra raccogliendo i vetri di una casa scossa da una bomba in Ucraina; vedo il raduno di donne e bambini nei sotterranei di una città spettrale battuta dalle sirene antiaereo; vedo la corsa di un carro armato che schiaccia un’auto nella strada grigia bloccando un anziano tra le lamiere. Indietro non si torna, sarebbe inutile dopo aver visto cosa c’è sotto la pelle, sarebbe inquietante riparare la coscienza con il trapianto di nuova pelle o usando una guaina artificiale. Adesso è tempo di gestire questa nuova acquisizione, di imparare come si sta nella chirurgia d’urgenza in cui hanno trasferito il mondo che si vede pulsare senza difese, esposto alla luna e al sole e alla violenza degli elementi, anzi, a quello che siamo e siamo sempre stati. Siamo ancora più vicini alle cose, alle migliori e alle peggiori. Con tutto lo sgomento che dovremo elaborare.
Mese: febbraio 2022
La verità
Un giorno nei dispenser dei luoghi pubblici, ma anche nei personali flaconcini tascabili, non ci sarà più l’igienizzante ma la verità. Metteremo una nocciolina di verità sui palmi e la faremo assorbire sfregando le mani. Normali saranno frasi come ti sei messo troppa verità, si sente l’odore a un metro, oppure scusa, ho finito la verità, me ne dai un po’? O anche: hai provato questa verità? È ottima. Ogni verità avrà percentuali diverse di alcol e diverse fragranze ma serviranno tutte al medesimo scopo e, in ogni caso, anche se scadente, sempre meglio usarla, ché un minimo di protezione la darà comunque. Alcuni, i più attenti, avranno le mani consumate, piagate, rinsecchite dalla verità. Altri la useranno appena, giusto prima di sedersi a tavola, svogliati come i bambini che non vogliono lavarsi mai e, anzi, mettono sempre le mani bocca dopo aver toccato qualunque cosa, il mondo, ovunque.
Le cose non finite
Le cose interrotte, non finite e lasciate a metà nessuno le adora, sono spesso le prime indicate come segno di inconcludenza, nutrono le accuse di incapacità di concentrarsi e andare a fondo, il famoso “combinare qualcosa nella vita”. Vero, anche. Esiste infatti tutta un’altra tipologia di cose non finite e lasciate a metà che invece esprimono la vita al massimo selvatico della fioritura: l’album del primo anno di vita di tuo figlio ancora da compilare, il tuo piatto preferito davanti alla sedia vuota mentre corri via, il pigiama che ritrovi sotto i pantaloni tornando da una notte di pronto soccorso amicale, le poesie che iniziano con la minuscola e non hanno il punto alla fine, la pelle salata sotto i vestiti che indossi una sera d’estate a cena, le chiavi lasciate appese alla porta di casa perché tu intanto
Vi renderemo la vita difficile
Vi renderemo la vita difficile
disse il sottosegretario
alla Salute, non parlando
fantastico a virus e batteri
ma a oltre sette milioni
di contribuenti incensurati,
frase che non stranì affatto
il resto degli italiani, ora
pronti a definire “misure
di sanità pubblica” i vari
deterrenti statali agiti
su motivazione scientifica –
la scienza vuole infatti
che alcune persone, benché
sane in un dato momento
e pur con mascherina
e igienizzate e distanziate
e, volendo, tamponate
non comprino il pigiama
la domenica, non viaggino
non lavorino, non abbiano
più lo stipendio – nessuna
persecuzione dicono, poi
i giuristi confermano: certi
divieti saranno assurdi
ma le norme sono generali
e astratte per definizione
non si possono ideare
a partire da casi limite
hard cases make bad law
bisogna portare pazienza
per il bene generale,
concludono col distacco
dei palloni aerostatici
dalla terra e dal mare
come fosse possibile solo
questa via, questa verità
questa vita che, sì, certo
preferivamo l’obbligo per
tutti ma ci contentiamo
di questa caccia scientifica
alle streghe senza data
di scadenza – sei strega tu?
no, e allora! finché non
si arriva al cento per cento
non gli diamo il pallone,
giochiamo solo noi, i migliori
tra non votati e indiscussi.
La fantasia non lo sa
La fantasia non chiede permessi, non conosce la differenza tra possibile e irragionevole, così mentre io stasera uscivo per il pane, senza chiedere, lei ha sognato per me una città senza più acuti di sirene per le strade, né di ambulanze (poveri malati) o vigili del fuoco (poveri edifici), né di polizia o carabinieri (povera legalità), niente più corse avvilite di lampi blu sul taglio delle piazze, né semafori bruciati per andare ad aiutare qualcuno, a sedare un incendio, a prendere i cattivi, né tantomeno evitare ritardi alle cene dei potenti, nessun allarme sonoro che irrompe come fosse normale perché la normalità è che nessuno ha più bisogno di aiuto e di niente, basta, diciamo almeno per i prossimi due anni e mezzo, ma sì, anche tre – non lo sa, la fantasia, che è impossibile, anche se ragionevole.
Aspetta
Ho aspettato molto, compreso tanto e ringraziato, ancora aspetto, capisco il mondo ma logora questo, vorrei andare oltre, non so andare né ancora aspettare e, se un giorno arriverà, mi sentirò la settima scelta, di esserci in via fortunosa, non per diritto o per merito, ma darsi importanza da soli è ridicolo, sta a voi, mi avete detto lo sei ma aspetta, così un lavoro e un’attesa, poi una conferma, la conferma e un altro infinito silenzio, nulla ai miei chiesti aggiornamenti, vedo molti passare davanti, non voglio passare, voglio solo sapere, non mi arpionate all’attesa altrimenti aspetto, sappiatelo e sappiate che basta, ormai non sono più, è andata oltre, l’attesa abita ora una pietra, qualcosa risorgerà, ma non sarò più io, né più questo io, avrò il mio nome sul titolo, ma l’ira eclisserà la lusinga: aspettare oltre – e io sono oltre – muta in furie contro le sbarre, in bestie che non vogliono uscire, solo piegare i ferri e poi restare, al riparo dalla pioggia che l’anima ha già traversato da anni, e da lontano le guarda, le bestie sue, nella calma più arresa e totale, scrivendo questi fiumi e sperando che non si leggano, ma siano carezza alle furie in attesa, che è attesa di non uscire.
Irraggiungibile
Abbiamo luoghi irraggiungibili per gli altri, dove non andiamo spesso ma che ci aspettano. Sempre. Sono agli antipodi dell’esperienza, fuori dal tempo verso dentro e fuori dal tempo all’infuori, in lontananza. Ogni persona ha la sua via per entrarci. Il genio francese delle lettere, Marcel, raccontò la sua via tirata fin lì dal senso dell’odore. Per me che ora scrivo da quel chiuso, molle e infinito, è una via tracciata dal suono. Ogni volta che vengo qui a nutrirmi del mio sempre, mi chiedo come ho fatto a starne lontano per così tanto. Facevo la vita, eppure qui è il suo oro. Nessuno lo può rubare. Né io posso o voglio portarlo via da qui. Qui sono io che devo tornare e mi faccio tenerezza quando abito il tempo senza nemmeno ricordare l’esistenza di questo grembo, il suo indirizzo in musica. Marcel disse che è proprio questo oblio quasi costante a renderlo sempre inespugnabile per gli altri e, il più delle volte, anche per la versione di noi obbligata al tentativo di una vita. L’altro luogo, quello dal tempo all’infuori, in lontananza, è ancora più difficile da raggiungere perché ha vie sempre diverse. Da lì i poeti afferrano note di lingua mai sentita prima e a volte riescono a farle sentire anche a noi. Ed ecco, vedi, anche lì è sempre questione di. Suono.
Crescita felice
Ieri sera, mentre noi cenavamo, Arturo è stato per un pezzo da solo in camera sua a giocare. Non era mai successo prima. Gli avevamo chiesto se voleva sedersi con noi in cucina ma aveva rifiutato seccamente. Ora torna, ci siamo detti, mettendoci a tavola. E non tornava. Non so quanto è durato, ma abbastanza da farci la mangiare la zuppa di cavolo nero alzandoci tre volte con passo felino per vedere che stava facendo in silenzio, nella massima concentrazione, lontano dai nostri occhi. Ci siamo commossi. Sa che siamo qui, abbiamo detto, che se vuole può venire, e questo gli dà abbastanza sicurezza per restare da solo a fare una torre alta di mattoncini. Quella scomparsa dal nostro raggio di osservazione ci ha scaldati con la tenerezza dei rami verdi, elastici e forti per assecondare la crescita esponenziale di ogni tessuto. Come già successo, per esempio l’unica volta che si è addormentato da solo a letto, commovente è stata l’idea di dire addio alla versione di noi che rispondiamo a un suo bisogno. In queste occasioni si rivive la gioia senza riserve che provavamo da piccoli a ogni scatto evidente di crescita, quando una capacità appena acquisita ti fa sentire importante e unico sulla terra. Non avrei mai pensato che crescere potesse farmi ancora felice a quaranta anni. In tv c’era Sanremo coi suoi intermezzi retorici fra le canzoni. Arturo è tornato in cucina, ha ballato per tutta la cover di Live and Let Die, poi è andato a letto con la mamma. Eravamo tutti più grandi.
Bere
Stamattina in balcone c’era un sole quasi fuori luogo, avevo una bottiglia ormai arrivata al fondo e ho iniziato a bere. A un tratto mi fermo, guardo la piantina nel vaso, verso un po’ d’acqua sulla terra, poi finisco il resto. Quando finirà questa ondata invernale, mi sono detto, cadranno le maschere e allenteremo la corda. Pure non riesco a vedere come potrà unificarsi di nuovo la terra dove l’hanno tanto spaccata, tra i cittadini regolari e i colpevoli di tutto. Se i primi sfiateranno il rancore allevato dal sadismo governativo ritrovando il calore tra simili e mille conferme sociali alla loro buona condotta, ai secondi si staccherà lo stigma dalla pelle e sentiranno l’ustione singolare fin lì attenuata facendo fronte comune. Quasi uno scambio delle parti avverrà nel tempo delle rondini. Temo che non sentiremo lo stesso canto all’imbrunire sul fiume, che vedremo formarsi geometrie diverse nell’aperto celeste. Pure basterebbe bere di nuovo la stessa acqua, per scusarci e ringraziarci a vicenda. Come ho fatto io stamattina, per la prima volta in vita mia.