Manovro le finestre della casa a doppia esposizione come fossi in mare aperto. Spalancate, le blocco in mille modi: sedie, giocattoli, grucce, scatole, bastoni di scopa. Aspetto qualche minuto in vari punti, fermo sulla soglia delle stanze. Quando un filo di vento passa tutto il corridoio, invitato dal sistema aperto tra le ante e gli spigoli, vivo un trionfo navale. Vedo gonfiarsi il fiocco sovrapposto alla randa e sento l’obliquo strattone dello scafo sul mare piatto: i canovacci dondolano sulle maniglie, un foglio cade a terra, il lampadario oscilla incredulo. Dura un attimo, poi torna la bonaccia. Però ci siamo mossi! Sembrava di poter infilare di nuovo la maglietta e fissare il promontorio per mantenere la rotta su quell’angolo di vento. La casa invece si raddrizza, si ferma e noi ci affacciamo su entrambi i lati per capire, tra lamiere d’auto roventi e antenne immobili sui tetti, da dove arriverà la prossima spinta. Le sirene che passano a branchi potrebbero aiutarci ma non si fermano mai, perché non possono. Corrono, loro, verso l’ennesimo incendio.
Mese: giugno 2022
In realtà ero bella
Elsa ogni tanto ci portava in Paradiso. E a chi chiedeva: «A me mi porti?» «No», lei subito, decisa, «Non c’entri niente tu. Tu non ci puoi venire in Paradiso». «E allora chi ci porti?» insistevano i delusi, «Patrizia ce la porti?» E Elsa: «Sí, Patrizia può venire in Paradiso».
Ah, come mi piaceva questo andare facile, sicuro, senza dover competere! Però, per non offendere, facevo la distratta coi respinti. Anche se poi, tra discussione e dubbi, un po’ alla volta venivano alla fine quasi tutti assunti. Ma io – a parte i gatti, che stavano già lí ad aspettarci – ero la prima, sempre, la prescelta. Non mi chiedevo il motivo di questa preferenza: da un lato mi pareva naturale, dall’altro pensavo fosse meglio non mettersi a indagare. Del resto, io a quei a quei tempi venivo ammessa ovunque: ai pranzi, al cinema, a teatro, andavo sempre bene con chiunque. Neanche di questo mi chiedevo la ragione, forse per questo avevo l’ammissione.
In quanto al Paradiso, a figurarmelo, io non vedevo altro che il prato dove stavo, come un vassoio che ci portasse in alto, un po’ inclinati e senza piú le sedie, per cui ci si arrangiava poco comodamente sopra l’erba. Un’altra differenza era con gli alberi, molto piccoli, qui, da miniatura, e con le chiome composte e tondeggianti. E poi c’erano i gatti, lenti, sul fondale, che, finalmente belve, parevano piú grandi del normale.
Non c’era altro, neanche mezza schiera di beati. Ce ne stavamo lí, tranquilli, a chiacchierare, le voci liete, senza mai un’asprezza – persino Elsa teneva basso il tono – le facce buone buone, intese a dimostrarsi ospiti all’altezza del posto e del regalo. E anch’io pallidamente simulavo, pur annoiandomi degli altri e di me stessa, mentre qualcosa mi diceva che essere prediletti può bastare in sé, e che a volerne raccogliere i frutti si può cadere in una scialba sproporzione. Che c’entra, per Elsa era diverso, aveva un’altra idea del Paradiso, lei ci vedeva innegabili vantaggi: andare senza borsa, per esempio, o alla sera non lavarsi i denti.
Ma io non ero ancora cosí stanca e preferivo i pranzi concitati, benché tra me un po’ mi vergognassi di non avere spirito abbastanza per trasognarmi nei piaceri alti. Avrei piú tardi rimediato, quando crescendomi la noia mia e degli altri, sarei ricorsa al piú sfrenato immaginare per abolire, non dico la realtà ma ogni traccia di verosimiglianza. E adesso mi stupisco quando penso a tutti quegli ingenui andirivieni tra un prato e l’altro dei nostri Paradisi tra i quali io sceglievo il più terreno per fingermi l’amata, la prescelta, chissà per quale grazia immeritata, senza sapere che in realtà ero bella.
Patrizia Cavalli su Elsa Morante (da un’intervista Rai)
(Qui un’altra chiacchiera smagliante)
Ciliegie
Ciliegie avvelenate ai soldati russi. Così, un titolo del Messaggero. Sono i dettagli che mi fanno impazzire. Al di là dell’uso che la propaganda fa di questa storia – a dimostrare che gli ucraini (categoria monolitica di individui) non vogliono i russi, contro quanto si dice invece in ambienti “putiniani”, che appartengano cioè allo stesso grande popolo, ogni ucraino avendo almeno un paio di parenti nella federazione – io penso alle ciliegie. Se la storia è vera, come solo certi dettagli inducono a credere, immagino i contadini di Melitopol che escogitano il piano. Immagino il rapporto quotidiano e la fiducia che essi hanno guadagnato, dopo settimane di occupazione, agli occhi del nemico. Finché un giorno, qualcuno pensa di avvelenarli e lo dice ai suoi. Da lì, inizia forse una discussione su quale cibo si adatti meglio come veicolo del veleno. Alcuni propongono verdure e ortaggi usati per le zuppe, ma no: ci sarebbero troppi passaggi in mezzo – la cottura, garantirsi di mettere il veleno prima di servire la pietanza, vedere quanta ne mangiano, capire quanto sia il minimo per causarne la morte – e poi chi lo dice che, ottenute le materie prime, i russi non vadano a cucinarsi la zuppa nel loro capanno? No, serve qualcosa di più immediato, qualcosa di plausibile come consumazione improvvisata, pasto del momento, magari un’offerta ai soldati direttamente dalle mani dei contadini, in segno di ristoro e acclarata accettazione di convivenza. Dobbiamo saltare il passaggio della cottura. A quel punto, qualcuno propone: usiamo la frutta. Un altro dice potremmo usare le ciliegie, hanno un sapore deciso, buono per mascherare l’eventuale gusto o retrogusto del veleno. E poi una tira l’altra, potremmo darne una normale dopo quella letale per nascondere subito l’eventuale sapore del veleno. Illuminati, i contadini annuiscono tutti. Sorridono? Non credo. Sono oltre, ormai. Fanno quello che va fatto. Uno di loro si guarda intorno, fino al tavolo di fòrmica. Fa due passi, afferra il cesto vuoto.
Tempesta di calore
Tempesta di calore. Non l’avevo mai sentito dire, ma rende l’idea. Pure di sera si respira un’aria immobile. Mio figlio cercherà consigli e direttive sulla vita a queste temperature. Chiamerà gente che per ultima avrà lasciato l’Africa e si farà dire tutto sulle camminate chilometriche col bidone da riempire. Inizieranno, lui e i suoi figli, a coprirsi ogni lembo di pelle quanto più caldo li sorprenderà, come ancora a noi oggi sembra controintuitivo. Solo in qualche breve tregua invernale potrà sperare di portarmi un fiore non secco, se la terra non si sarà già spaccata dove sarà il mio posto. Gli incendi estivi delle mafie negli ultimi residui verdi dell’isola non aggiungeranno gradi all’atmosfera già rovente, solo cenere che si mischierà alla sabbia sui vecchi tavoli di marmo variopinto in terrazza. Nessuno ricorderà più i 53 gradi in Spagna alla fine di questa primavera del 2022, né le immagini impressionanti che arrivano dai satelliti. In pochi capiranno ancora l’espressione “cuore di ghiaccio” che qualche anziano giornalista userà in tv per qualificare l’impassibilità del governo, muto davanti all’ennesima alluvione che avrà fatto crollare un ponte o il costone di una montagna, alla fine dell’unica grande stagione di fuoco intorno alla stella Sole.
Un librone
Ieri è arrivato a casa un librone Adelphi del 1986. Stamattina l’ho aperto, ho letto un testo che già ben conoscevo e mi sono accorto per la prima volta di un aspetto che nessuno ha mai sottolineato di quel testo, nelle sue tante citazioni saggistiche. Alzo gli occhi dalla pagina e resto in ammirazione fisica: il grande formato, la grammatura consistente, il font riconoscibile, la testatina, i corpi diversi dei caratteri, l’odore della carta matura, le quinte azzurro avio delle alette in sovraccoperta, questa precisa combinazione di ogni elemento mi ha predisposto e fatto vedere quello che altrove non avevo mai visto, all’interno dello stesso testo, in tutti gli altri luoghi fisici e digitali di consultazione. E mi è sembrato di stare per un attimo davanti al volto in filigrana di Roberto Calasso, di più: quasi mi è parso di sentirne la voce, la cadenza, il timbro, nell’ovatta di uno studiolo pieno di libri a ogni latitudine. Diceva, lo stai facendo bene, perché noi lo abbiamo fatto bene; questo è l’oltre fantastico dei pensieri comunicanti; questo, diceva, è il motivo che ci ha sempre convocati nel golfo mistico dell’inattuale. Inconsumabile.
Borotalco
Ieri sera ho rivisto Borotalco (ma vale per ogni altro “documento” fino agli anni Duemila) e ho provato un’invidia mista a impressione dolorosa nel misurare la libertà in cui abbiamo vissuto quando la gente usciva di casa e, davvero, non c’era più, stava solo dove stava fisicamente; solo con chi stava fisicamente. Rispettando il tempo necessario all’altro per coprire le distanze. I legacci della reperibilità capillare hanno fatto ormai crollare tutto un sistema di “fiducia dovuta” nei confronti dell’altro, sostituendola con un sistema di “controllo legittimo” e immediato per cui, oggi, poter sapere ci induce a voler sapere (così, le dinamiche del desiderio in molti altri campi: se ormai posso, allora io voglio). Rispetto al precedente bisogno di tenerci legati ritrovando l’altro in un sistema di fiducia dovuta, da passare poi al vaglio fisico, oggi è la tecnologia che ci tiene potenzialmente legati, liberandoci dal bisogno di un successivo vaglio fisico. La vertigine provocata dalla sua capillarità è tale, anzi, e a essa abbiamo così associato il rilascio di endorfine, che siamo noi – oltre quella prima mutazione, in cui ancora eravamo solo inquisiti – a voler dire ormai agli altri, pure sconosciuti, dove siamo, che facciamo, senza più aspettare che ce lo chiedano loro alla nostra prima scomparsa. Così, certo, è ancora possibile che due sognatori fuggano insieme da una quotidianità opprimente ma ecco che, davanti al mare di Castel Porziano, tra una domanda sul segno zodiacale di Dio e le prime carezze clandestine, verrà voglia di fotografare il paesaggio o sé stessi, non per diffonderli necessariamente subito agli altri, ma già solo a garanzia di un potenziale futuro controllo di sé su sé stessi. Controllo che non faremo mai: nessuno rivede le mille foto inutili che scattiamo. Viviamo l’istinto di controllo sul presente, senza poi esercitarlo mai perché a nulla serve, se non come garanzia invece di una presa stessa sul presente, attenzione esclusiva che non riusciamo più a esercitare. Garanzia di starlo vivendo davvero quel momento, come per l’inconfessabile dubbio di esserci, presenti qui e ora, con la nostra sola cifra di carne e fiato attestabile, in passato, e già ben soddisfatta ad esempio dall’improvviso canto stonato di un brano di Dalla in coppia a squarciagola contro i pesci sott’acqua che manco si vedono. Ma ci fidiamo: nuotano lì sotto, che è tanto profondo.
‘ito bene
Quand’ero piccolo mi addormentavo quasi a malincuore, poi mi svegliavo e facevo qualche storia senza un motivo apparente. In realtà, aprendo gli occhi, mi accorgevo di aver ceduto alla volontà dei genitori e protestavo per essermi perso qualcosa vissuto dagli altri rimasti in piedi – un gioco, una scoperta in più che avrei potuto fare. Dormire era una presa in giro mentre io volevo correre dritto verso l’orizzonte dell’età che avevo, senza giri perditempo. Crescendo, si sviluppa la dinamica opposta. Ora amo prendere fiato nel giro dei sogni, soffrendo come tutti certe giornate che vanno dritte a una fatica, alla gestione di una responsabilità. Oggi, però, il problema della preferenza accordata all’uno o all’altro stato, del sonno o della veglia, me lo ha fatto superare del tutto una sintesi di Arturo. Dopo essersi svegliato una volta dal riposo pomeridiano, tra lamenti che mi hanno fisicamente ricordato com’ero io alla sua età, ha continuato a dormire per un po’, rassicurato dalla mano di sua madre. Al secondo risveglio era già diventato grande: Mamma, mamma, ‘ito bene! Ha iniziato a formulare di sua iniziativa frasi di due parole da pochi giorni, al massimo una settimana. Questa è una delle sue prime verbalizzazioni naturali. Lucia non ci crede. Mi chiama: Marco, vieni a sentire che dice Arturo! Dillo a papà, amore. Papà, ‘ito bene! Ma come? Poco fa ti lamentavi e ora apprezzi il meccanismo. L’epifania mi rivolta come un calzino. Si può dormire bene, pur avendo appena protestato per l’inganno del sonno sulla realtà; si può protestare per l’inganno del sonno sulla realtà, pur avendo effettivamente dormito bene. Godimento dei sogni e desiderio di realtà convivono. L’ho imparato oggi da un bambino di due anni.