Piccoli

Oggi il Sistema mi ha riproposto una foto di nove anni fa. Era la locandina di uno spettacolo per ragazzi che portammo al teatro Biondo di Palermo. Quaranta repliche. Col fondatore della compagnia siamo ancora amici, lui ha circa vent’anni più di me. Davanti a questa foto però oggi ho capito che siamo stati piccoli insieme. La vita di palco – quella prima di salirci sopra, quella apicale dello spettacolo, quella calda e morbida del dopo recita – immette in una dimensione onirica dove il tempo funziona in modo diverso. E non è un caso che si chiami atto la vita portata in scena, fiabesca o realistica che sia, eterno presente del gioco che fai con altri e, in sé, annulla ogni differenza d’età tra gli attori. Tutti appartengono allo stesso altrove dove chi è più grande e chi più piccolo è solo una finzione tra le altre. Lo stesso nome di compagnia indica il motore di questa presentificazione onirica: la relazione, l’esercizio continuo dell’ascolto, ascolto fisico dei compagni, per tenere il ritmo dello spettacolo ma più ancora per risolvere gli imprevisti sulla scena. Qui, nel mondo esterno, Ludovico ha ancora vent’anni più di me. Eppure siamo stati piccoli insieme. Per molto tempo.

Per tutte le vite

«Non cambierà niente». Ci sono bugie dolcissime. Ma la verità è che siamo nati per rinascere tante volte. Passati al resto del tempo che ci stacca dall’infanzia, quante volte si può nascere in una sola vita? Un istinto, io credo, guida chi lo sa ascoltare tra le correnti del dopo, le sirene del resto che ci aspetta. Il resto in cui siamo già, se condivido questa lunga età adulta con voi. E si deve cercare una grandezza morale nella fedeltà a sé stessi, non come forma di tenacia inflessibile, ma come fiducia morbida di non perdersi al successivo cambiamento. Rimane immutato l’istinto e una memoria delle cose apprese nel tempo che era la nostra alba. Fiducia e fedeltà fanno la grandezza di un’anima che abbraccia la resa davanti ai misteri più grandi. Tutto diventa stagione in un ciclo che però non si ripete e vede in noi compiersi un anno senza fine, bellissimo per forza. Senza tema di cadere nella febbre della tenerezza finché respiriamo, né paura di rimpiangere gli antenati che andavano in giro con le mani macchiate di inchiostro. Depositari delle loro mutazioni sulla pagina, generosi ospiti della muta che lasciavano agli altri per andare incontro al dopo, un’altra nascita. Non cambierà niente. Abbracciamo i punti di non ritorno per non dimenticarli mai, scrivendoli sul nostro volto nel buio infastidito dai nuovi inizi. Nuovi inizi per sempre. Per tutte le vite.

Sara

Sei passata. Non hai più solitudine, non hai più occasioni perdute, né più estraneità al mondo. Passata, hai finito di aspettare, hai finito di ricordare, ma fino alla fine hai conosciuto altra vita che ti continua: fino alla fine hai giocato con mio figlio, bambino nuovo, tu, bambina sempre, tu sempre figlia. Fuori dal mistero che ognuno è per gli altri, ti sei data alla cura dei tuoi cari e alle lettere, ai chilometri in auto per insegnare, all’amicizia sui gradini di un teatro greco, al ristoro del mare di Capo d’Orlando, al ripasso di rime e novelle, tu, votata all’amaro amore ideale per l’amore che ora però, davvero infine, sei. Sereno Amore, Risorgi Adesso. Benedici I Suoi Adorati Nipoti, Tenerezza Infinita. La camera dove ti hanno portata sta in via Uditore, dietro la tua ultima residenza di donna autonoma, dove c’è l’istituto Verga. Quando sono tornato alla macchina dopo l’ultimo saluto, la strada era piena di bambini che uscivano da scuola dando la mano ai genitori. Anche tu ora gli dai la mano, lasciando nella nostra un’eredità di cose semplici e rare. Com’era parlare con te.

Tramite

Voglio che in futuro leggendo la mia biografia, fino alla fine, un ragazzo cerchi la musica che avranno messo al mio funerale, la senta e se ne innamori pensando alla mia opera come a una sua esperienza. Voglio che in futuro preparando la valigia per andare in montagna, in cerca di residua frescura, una ragazza d’estate porti con sé un mio libro tra quelli che intenderà leggere nel suo alto isolamento. Voglio che in futuro al balcone affacciato di sera, nel fiato corto di tanti pensieri, mio figlio alzi gli occhi e mi senta sospeso a pochi centimetri dalla fronte nel conforto ossigeno dell’amore presente. Voglio che in futuro studiando la mia opera, tra pubblicazioni, lettere inedite e diari privati, un ricercatore ne viva la cifra sempre sfuggente davvero non sapendo come riassumerla in una sola definizione. Voglio che in futuro un altro o un’altra insomma – il che è già dire: futuro; altri – per me come tramite finiscano senza volerlo in un chiaro di bosco dove io non sono mai stato, così come io l’ho trovato per tramite di un altro e un’altra, dove essi non erano mai stati.

Un librone

Ieri è arrivato a casa un librone Adelphi del 1986. Stamattina l’ho aperto, ho letto un testo che già ben conoscevo e mi sono accorto per la prima volta di un aspetto che nessuno ha mai sottolineato di quel testo, nelle sue tante citazioni saggistiche. Alzo gli occhi dalla pagina e resto in ammirazione fisica: il grande formato, la grammatura consistente, il font riconoscibile, la testatina, i corpi diversi dei caratteri, l’odore della carta matura, le quinte azzurro avio delle alette in sovraccoperta, questa precisa combinazione di ogni elemento mi ha predisposto e fatto vedere quello che altrove non avevo mai visto, all’interno dello stesso testo, in tutti gli altri luoghi fisici e digitali di consultazione. E mi è sembrato di stare per un attimo davanti al volto in filigrana di Roberto Calasso, di più: quasi mi è parso di sentirne la voce, la cadenza, il timbro, nell’ovatta di uno studiolo pieno di libri a ogni latitudine. Diceva, lo stai facendo bene, perché noi lo abbiamo fatto bene; questo è l’oltre fantastico dei pensieri comunicanti; questo, diceva, è il motivo che ci ha sempre convocati nel golfo mistico dell’inattuale. Inconsumabile.

‘ito bene

Quand’ero piccolo mi addormentavo quasi a malincuore, poi mi svegliavo e facevo qualche storia senza un motivo apparente. In realtà, aprendo gli occhi, mi accorgevo di aver ceduto alla volontà dei genitori e protestavo per essermi perso qualcosa vissuto dagli altri rimasti in piedi – un gioco, una scoperta in più che avrei potuto fare. Dormire era una presa in giro mentre io volevo correre dritto verso l’orizzonte dell’età che avevo, senza giri perditempo. Crescendo, si sviluppa la dinamica opposta. Ora amo prendere fiato nel giro dei sogni, soffrendo come tutti certe giornate che vanno dritte a una fatica, alla gestione di una responsabilità. Oggi, però, il problema della preferenza accordata all’uno o all’altro stato, del sonno o della veglia, me lo ha fatto superare del tutto una sintesi di Arturo. Dopo essersi svegliato una volta dal riposo pomeridiano, tra lamenti che mi hanno fisicamente ricordato com’ero io alla sua età, ha continuato a dormire per un po’, rassicurato dalla mano di sua madre. Al secondo risveglio era già diventato grande: Mamma, mamma, ‘ito bene! Ha iniziato a formulare di sua iniziativa frasi di due parole da pochi giorni, al massimo una settimana. Questa è una delle sue prime verbalizzazioni naturali. Lucia non ci crede. Mi chiama: Marco, vieni a sentire che dice Arturo! Dillo a papà, amore. Papà, ‘ito bene! Ma come? Poco fa ti lamentavi e ora apprezzi il meccanismo. L’epifania mi rivolta come un calzino. Si può dormire bene, pur avendo appena protestato per l’inganno del sonno sulla realtà; si può protestare per l’inganno del sonno sulla realtà, pur avendo effettivamente dormito bene. Godimento dei sogni e desiderio di realtà convivono. L’ho imparato oggi da un bambino di due anni.

Reggere

A volte è il soffitto che tiene le colonne. Non so chi mette questa frase nel mio orecchio. Sto ammirando il soffitto del portico di santa Maria in Trastevere. Mi giro verso un noto giornalista palermitano, la sua smorfia di impotenza, lontano, a destra, come a dire non è colpa mia, è il mio lavoro. Ha appena fatto la cronaca di un abbandono: mio suocero, patologo, ha lasciato un caso assegnatogli dal tribunale. Eccolo, sospeso all’altezza della mia fronte, gambe incrociate, sembra seduto sull’aria. Indossa una camicia da notte bianca a scacchi blu scuri e mi guarda dall’alto in basso. Gli dispiace molto per com’è andata, che abbia mollato. Non l’ho mai visto così esposto, sincero, indifeso. Lo tranquillizzo: non potevi fare altrimenti. È come se ti avessero detto noi non ci fidiamo, gli dico, e tu avessi risposto allora arrivederci, di che stiamo parlando? Domenico posa su di me l’espressione più ricca nuda e diretta che io abbia mai ricevuto, adulto da un altro adulto. Dritto negli occhi. Il suo volto è gratitudine e consolazione insieme. Mi ringrazia perché l’ho sollevato da un peso; mi conforta perché sa che manca tanto a tutti. Quello sguardo mi riempie di calore, mi nutre, mi dà una serenità che basta a farmelo sentire presente per tutto ciò che conta, grande aiuto per me e sostegno per tutti noi. Si china lentamente per abbracciarmi la testa, non smette mai di chinarsi fino alla fine del sogno, mentre sento di nuovo la frase. A volte è il soffitto che tiene le colonne. Non è lui a dirla: non ha mai aperto bocca. Forse è la sua faccia, penso. Subito dopo mi sveglio e il giorno intero sa di questo.

Traboccare

Siamo fatti per traboccare. Tutto è più grande di noi – tutto ciò che conta, almeno. Quando non ci capacitiamo più di una letizia è bello iniziare a traboccare felicità; quando non possiamo più contenere un dolore è brutto traboccare assenza. In entrambi i casi è come risuonare e i corpi è come se li usassimo – o i corpi usassero noi – per ospitare la persistenza di un evento già dato, un gesto ormai compiuto, un suono emesso, un liquido versato. Si distende così in noi, tracimando, un presente che non scade, non finisce. Niente è lasciato alla decisione nostra: quale onda sonora far risuonare, se sarà una letizia o un dolore a farci traboccare. Sappiamo solo che tutto è più grande di noi. Va bene quando siamo piccoli e così, anzi, ci sentiamo pienamente parte del vivo mondo, senza alcun diaframma tra lui e noi, in regime di assoluta identificazione; fa male quando capiamo da grandi che non c’era alcuna promessa, un giorno, di poterlo contenere il mondo vivo, noi stessi. Non possiamo contenere interamente ciò che siamo perché è sempre più grande di noi – se conta veramente – possiamo solo esserne parte. Quello che siamo è più grande di noi, ecco. Rispetto a questo, non ci resta che una cosa: traboccare, risuonare.

Domenico

Domenico era un incisore. Uno dei primi incavi che mi ha lasciato dentro ha un nome tedesco: sitz im leben. Io il tedesco non lo conosco, ma da lui so cosa indica questa espressione. Non ricordo se me ne parlò solo una volta, e tanto bastò a fulminarmi, o se fu un concetto ripetuto in più occasioni, col fervore e la sapienza degli incisori nel passare più volte sulla stessa linea.

Sitz im leben significa “posto nella vita”, in metafora è il luogo che scegli come apertura prospettica sul resto. Ognuno trova il suo sitz im leben dopo una ricerca. Dal momento in cui ti siedi lì, guardi le cose orientando il senso che hanno per te, che vuoi che abbiano, o che lotterai perché lo abbiano. Non era un discorso da adulto a ragazzino: avevo iniziato a frequentare casa sua per un interesse verso la figlia, ma in quel momento non c’entrava niente. Era una confidenza da anima pari, data senza alcun ritorno di interesse, per la sovrabbondanza di una grazia che gli illuminava il sorriso. Un sorriso da trovatore.

Il sitz im leben è il posto in cui scegli di sederti per osservare la vita, diceva, la sedia del tuo essere che non deve più correre dietro mille correnti ma può iniziare finalmente a costruire qualcosa. Quando me ne parlò eravamo davanti alla sua grandissima libreria, piena di volumi di scrittori russi, autori mistici e molti testi di teologia. Una delle cose che trovai subito affascinanti di quest’uomo era che – dopo due specializzazioni in medicina, cinque figli e una carriera avviata – si era iscritto in Teologia e gli mancava una materia. Ancora studia! pensavo.

Avendo appena iniziato l’università, nel pieno smarrimento dei diciannove anni, ero irretito dalla sua figura di ricercatore continuo, dall’idea di coltivare sé stessi per la fioritura di un senso unitario che all’epoca era ciò da cui mi sentivo più lontano. Da noi, in dialetto, si usa l’espressione: quel tizio si è collocato, per indicare – nel bene e nel male – una condizione (materiale oggettiva o di predisposizione intima) di assestamento inamovibile attorno a cui è quasi obbligato a girare il resto delle cose. Quanto desideravo io avere almeno un po’ di quella stabilità! Avere una direzione chiara era un sogno per me che brillavo sì, ma come polvere interstellare alla deriva.

Ora che ho cercato la giusta trascrizione di questa locuzione tedesca, mi accorgo che per una sola vocale la parola “vita” (leben) si differenzia dal verbo “amare” (lieben). Da oltre vent’anni ospito questa figura del Sitz im leben che mi ha inciso Domenico, da entusiasta a entusiasta. Da oltre vent’anni mi chiedo a quale posto potrei dire di aver riservato la seduta del mio essere, per quanto sia possibile a un’indole inquieta come la mia. Credo di poter dire che le ho riservato il posto migliore possibile, quello dell’amare (come processo, azione, verbo; nulla di statico, niente sostantivo, nessun punto di arrivo). Il mio sitz im leben è il lieben.

Lo stesso amare teneva legati, in una condizione che spesso aveva del telepatico, Domenico e Lucia, la figlia che intanto mi è rimasta compagna, sposa, diventando madre a sua volta di un nipotino che è stato l’ultimo pensiero felice di mio suocero. Nel pomeriggio del primo marzo, data in cui dieci anni prima moriva per arresto cardiaco pure Lucio Dalla (un’altra versione di me), poco dopo la mia registrazione al cellulare della canzone Se io fossi un angelo, Domenico ha parlato al telefono con Lucia della febbre che aveva da quattro giorni nostro figlio Arturo.

Aveva già il fiatone, mio suocero, lo sentivo dalla cornetta persino io che stavo davanti a Lucia. Papà, ma che hai? Niente, sto facendo le scale. Ora entro e mi prendo una bottiglietta d’acqua. Lucia parlava di Arturo. Lucetta, non ti preoccupare: a tutto c’è una soluzione. A tutto c’è una soluzione. A tutto c’è una soluzione. Tre volte l’ha ripetuto. Un’esagerazione. La mia sposa non poteva che ironizzare: va bene, papà, ora me lo segno! Tu però, fermati e riprenditi un attimo. Ecco ho preso l’acqua, ora mi siedo. Oh, bravo, dai. Ecco, ah… mi sono seduto. Va bene. Ciao, ciao.

Domenico era un incisore. L’ultima icona che ci ha lasciato è la chiusura di un cerchio; le sue ultime parole in assoluto consegnate alla figlia più lontana; la sovrabbondanza di una rassicurazione per la più recente vita arrivata in famiglia; il gesto a ricalco della prima incisione che mi fece dentro, dando al suo essere il posto che aveva scelto fin dall’inizio, la seduta che ha sempre avuto – e continua ad avere – per tutta la vita: l’amore.

Irraggiungibile

Abbiamo luoghi irraggiungibili per gli altri, dove non andiamo spesso ma che ci aspettano. Sempre. Sono agli antipodi dell’esperienza, fuori dal tempo verso dentro e fuori dal tempo all’infuori, in lontananza. Ogni persona ha la sua via per entrarci. Il genio francese delle lettere, Marcel, raccontò la sua via tirata fin lì dal senso dell’odore. Per me che ora scrivo da quel chiuso, molle e infinito, è una via tracciata dal suono. Ogni volta che vengo qui a nutrirmi del mio sempre, mi chiedo come ho fatto a starne lontano per così tanto. Facevo la vita, eppure qui è il suo oro. Nessuno lo può rubare. Né io posso o voglio portarlo via da qui. Qui sono io che devo tornare e mi faccio tenerezza quando abito il tempo senza nemmeno ricordare l’esistenza di questo grembo, il suo indirizzo in musica. Marcel disse che è proprio questo oblio quasi costante a renderlo sempre inespugnabile per gli altri e, il più delle volte, anche per la versione di noi obbligata al tentativo di una vita. L’altro luogo, quello dal tempo all’infuori, in lontananza, è ancora più difficile da raggiungere perché ha vie sempre diverse. Da lì i poeti afferrano note di lingua mai sentita prima e a volte riescono a farle sentire anche a noi. Ed ecco, vedi, anche lì è sempre questione di. Suono.