Un ricamo

Poesia è fare, a volte è dare parvenza di senso al caso, non restituendone i tratti vivi e nitidi ma come ricamando il profilo della sua ombra. Suggerire che qualcosa possa avere senso, un senso non visibile ma tanto solido e presente da schermare il sole a terra in arabeschi. Così oggi ritrovo su un vecchio quaderno un esercizio di quattro anni fa. Avevamo segnato in colonna le iniziali del nome delle persone sedute al tavolo, con la pretesa di imbastire un acrostico. Questo, il mio risultato: Ammettiamo Noi Le Cose Tonde: Se Dico “Luna” Si Muovono Ricamanti Fate Alla Marina. Eravamo quattordici intorno al tavolo. Non ricordo se io corrispondevo all’indicazione muovono o alla finale marina.

In realtà ero bella

Elsa ogni tanto ci portava in Paradiso. E a chi chiedeva: «A me mi porti?» «No», lei subito, decisa, «Non c’entri niente tu. Tu non ci puoi venire in Paradiso». «E allora chi ci porti?» insistevano i delusi, «Patrizia ce la porti?» E Elsa: «Sí, Patrizia può venire in Paradiso».
Ah, come mi piaceva questo andare facile, sicuro, senza dover competere! Però, per non offendere, facevo la distratta coi respinti. Anche se poi, tra discussione e dubbi, un po’ alla volta venivano alla fine quasi tutti assunti. Ma io – a parte i gatti, che stavano già lí ad aspettarci – ero la prima, sempre, la prescelta. Non mi chiedevo il motivo di questa preferenza: da un lato mi pareva naturale, dall’altro pensavo fosse meglio non mettersi a indagare. Del resto, io a quei a quei tempi venivo ammessa ovunque: ai pranzi, al cinema, a teatro, andavo sempre bene con chiunque. Neanche di questo mi chiedevo la ragione, forse per questo avevo l’ammissione.
In quanto al Paradiso, a figurarmelo, io non vedevo altro che il prato dove stavo, come un vassoio che ci portasse in alto, un po’ inclinati e senza piú le sedie, per cui ci si arrangiava poco comodamente sopra l’erba. Un’altra differenza era con gli alberi, molto piccoli, qui, da miniatura, e con le chiome composte e tondeggianti. E poi c’erano i gatti, lenti, sul fondale, che, finalmente belve, parevano piú grandi del normale.
Non c’era altro, neanche mezza schiera di beati. Ce ne stavamo lí, tranquilli, a chiacchierare, le voci liete, senza mai un’asprezza – persino Elsa teneva basso il tono – le facce buone buone, intese a dimostrarsi ospiti all’altezza del posto e del regalo. E anch’io pallidamente simulavo, pur annoiandomi degli altri e di me stessa, mentre qualcosa mi diceva che essere prediletti può bastare in sé, e che a volerne raccogliere i frutti si può cadere in una scialba sproporzione. Che c’entra, per Elsa era diverso, aveva un’altra idea del Paradiso, lei ci vedeva innegabili vantaggi: andare senza borsa, per esempio, o alla sera non lavarsi i denti.
Ma io non ero ancora cosí stanca e preferivo i pranzi concitati, benché tra me un po’ mi vergognassi di non avere spirito abbastanza per trasognarmi nei piaceri alti. Avrei piú tardi rimediato, quando crescendomi la noia mia e degli altri, sarei ricorsa al piú sfrenato immaginare per abolire, non dico la realtà ma ogni traccia di verosimiglianza. E adesso mi stupisco quando penso a tutti quegli ingenui andirivieni tra un prato e l’altro dei nostri Paradisi tra i quali io sceglievo il più terreno per fingermi l’amata, la prescelta, chissà per quale grazia immeritata, senza sapere che in realtà ero bella.

Patrizia Cavalli su Elsa Morante (da un’intervista Rai)
(Qui un’altra chiacchiera smagliante)

Mosse

Ho passato una vita a fare le mosse
e continuerò a farle
finché avrò questa casa del corpo
e mentre facevo le mosse
poteva accendersi un fuoco diverso
è stata prima una voce
di figlio, poi una freccia che gridava
tirata nel vuoto e ora
è la mossa del padre che mi fa
ruotare senza sapere mai
quando sarà che la parola padre
uscirà dal mio corpo
con tutto il calore che dicono
essa abbia avuto fin
dalle origini che alitarono il mondo.

Il gran sudario

Il mare fa tutto quello che vuoi
al posto tuo, se tu non vuoi
ma sempre al caro prezzo
di una fine: non vuoi
smaltire i rifiuti, li dai al mare
e lui uccide l’ecosistema
non vuoi salvare i fuggiaschi
dalla morte e lui li annega
lontano dagli occhi, non vuoi
elaborare nuove distanze
dagli affetti e lui se ne prende
tutta la colpa seppellendo
le antiche relazioni con loro,
questo e altro fa il mare
per te, le tue cose e ti lascia
riposare se lo chiami
– mare, già come da un marmo.

Now small fowls flew screaming over the yet yawning gulf; a sullen, white surf beat against its steep sides; then all collapsed, and the great shroud of the sea rolled on as it rolled five thousand years ago. (H. Melville, Moby Dick, 1851)

Tutti gli occhi che ho aperto

sono limpida oggi, come un vetro mai rigato dalla pioggia. Ho dimenticato cosa ho dimenticato. Guardo soltanto. Gli stormi passano. Attraverso la luce si raccoglie il tepore nel bosco sulla collina, nel mio corpo finalmente disteso – ho creduto al cielo. Alla linea spezzata dell’orizzonte. Come una sagoma semplice, una possibile forma di vita.

[Ecco l’ultimo testo della raccolta. Cammino da tempo nella scrittura di Franca Mancinelli, poeta aperta a frequenze vicine anche al mio orecchio, per la luce da cui a volte siamo parlati. Il suo ultimo libro, Tutti gli occhi che ho aperto, è stato già contato da più voci del mondo critico e non solo italiano, oltre a quella di Fabio Pusterla che le ha dato le Ali di Marcos y Marcos, lo scorso autunno. Sorvolando perciò ogni intento sistematico, estendo con partecipato disordine solo un altro invito alla lettura delle sue opere. Invito che inizia con il bianco, il viaggio, la voce prestata, l’epifania del vivente nella natura, l’invisibile come testo a fronte, l’idrogeologia franata di una terra interiore, il corpo in continua torsione liminare, fino al foglio cartilagine: sono solo alcuni tra i luoghi prediletti di Franca, che scrive iniziando sempre con la minuscola. Minuscola come il dorso anfibio di un dialogo col mondo che inizia e finisce oltre la pagina, di cui il testo è un’emersione parziale, traccia, residuo linguistico di una realtà più viva e grande di quella restituibile dalla pur volenterosa mimesi della parola inerte, compiuta; residuo che ha il valore contrario a quello dello scarto, però, e assume i tratti multipli dell’indispensabile. I frammenti posti nelle varie sequenze del libro hanno la densità del bagaglio essenziale, da mettere nello zaino prima dell’incessante migrare cui siamo destinati oggi, nell’alto mare discorsivo. Tutti gli occhi che ho aperto ha così l’andamento frastagliato di un’interferenza a rovescio, fatta di brevi chiari del bosco, piccoli nitori nel groviglio dell’accadere, vie di accesso a più di “un incavo del tempo” come – a volte cupo, a volte luminoso – è il silenzio tra le note, che per Debussy coincide con la definizione stessa della musica. Lo spartito che Franca ci ha restituito stavolta, sincope di prose lineari e versi poetici, ha una struttura circolare con una fine e un inizio che si ripetono.]

quello che posso lo scaldo al fuoco. Abbiamo trovato una pentola di buona fattura. Chi ha bivaccato qui, ora è già forse in Germania. Questione di tempo, di soldi e di fortuna. I soldi li ha presi la nostra guida. Beve energetici da una lattina nera. Ha il sapore di sciroppo per il mio bambino.

[Ecco il primo testo della raccolta, in perfetta consonanza con l’ultimo, perché nato dalla stessa esperienza: un percorso a ritroso compiuto da Franca nel tratto croato della “rotta balcanica” dal confine sloveno a quello serbo. La sua voce qui è prestata a una figura di donna che ha davvero passato quell’inferno, e il prestito poggia sulla grande capacità di apertura di questa poeta all’altro da sé, non solo umano, ma vivente in ogni forma. Di apertura in apertura, si doppia così la fine del libro tornando al suo inizio e alle 8 sezioni di cui è composto, numero che raffigura l’infinito. Eppure, ieri per la prima volta mi sono fermato sulla soglia di questo infinito, quasi trovandone un’uscita segreta, verso l’alto. Malgrado l’opera provi a eludere il concetto stesso di entrata e uscita dalle sue pagine, nel suo movimento di rigenerazione circolare, mi è parso per un attimo di riuscire a staccarmi e guardarla dall’alto. Dopo le note si trova infatti l’indice del libro.]

ogni giorno per il taglio utile
fanno un rumore secco
quando tornerai a vedere
ho visto gli occhi degli alberi
ramifico secondo la luce
era inerte l’aria
non è stato intagliato
ho iniziato a curvarmi
dai rami della specie
da qui partivano vie
entro nella pioggia come in un bosco.

[Ecco l’indice della sequenza Alberi maestri. Le poesie di Franca non hanno titolo, così l’indice si compone di tutti i primi versi. Leggere qui l’indice della raccolta è l’ultima forma di invito che estendo a tutti i lettori ancora fuori dalla poesia di Franca. È un modo per familiarizzare, se non altro, con il lessico: galassia di porte aperte sull’opera. L’orientamento in colonna sembra però suggerire altro, se non la possibilità, quantomeno l’invito al collaudo di una “super-poesia” sfuggita allo stesso controllo dell’autrice. È un’ipotesi gratuita, ludica e irriverente, ma la sua eventuale accoglienza non toglierebbe nulla al valore della poeta, anzi, forse ne rafforzerebbe solo il carattere di ospite prescelta dalla poesia per manifestarsi. Proviamo a leggere i titoli di altri testi come parti di uno stesso componimento che apre a connessioni imprevedibili. Sentite.]

dove lo scorrere di un fiume si interrompe
corro. E sto fermo all’incrocio
con la forza del niente
– stanno ancora tessendo
l’allarme non scatta, ma è un furto
la calpesti ogni giorno
è accaduto, resta: nel cupo
al centro il mistero, lo stame
nel chiarore d’inizio
lungo la rete di sangue asfaltato
ritorno, ascolto l’aria. E poi salto
punto gli occhi e si compie
negli occhi chiusi una sorgente
l’infinito dei morti

il morto si può fare: braccia aperte
è il giorno, il vento
tutti nella stiva premendo
alla deriva, nel moto continuo.

[Ecco l’indice della sequenza Luminescenze. Il rigo bianco è un’intera pagina bianca nel libro, dov’è disegnata una spirale come la sezione di un tronco, mutilazione necessaria all’apertura di altri occhi. È solo una proposta, continuo a guardare con sospetto la possibilità di leggere l’opera dall’alto, per così dire, sfruttando l’indice come chiave di accesso al mondo della poeta, saggio della sua coesione e coerenza interna. Il sospetto però non è come rivolto a qualcosa a cui non si crede fino in fondo. È come l’attesa di afferrare bene una voce, sulla cui esistenza non c’è alcun dubbio. La voce in continua rigenerazione da cui è parlata Franca, che nella cartilagine di pagina 29 dice:]

ramifico secondo la luce
alberi maestri
a spalancarmi il petto
con la forza che viene da un seme.

Non ho mai scritto

Non ho mai scritto nulla a cui tengo di più: da oggi sul “Diario di passo” di Franca Mancinelli trovate sette poesie dalla mia raccolta ancora inedita Nella Camera – esercizi dell’attesa. Questo è il link per andarle a trovare. Vedete come la gioia disseta ogni parola asciutta di questo annuncio?

Marco Bisanti, sette inediti da “Nella camera. Esercizi dell’attesa”

Bianco

Voglio comprare un vestito di lino bianco. Voglio un vestito di lino bianco e dei sandali scuri. Voglio essere sottile. Senza cappello, testa lunga e misura larga addosso, voglio andare al molo. Passeggiare nel vento che mi fa le pieghe. Voglio come un foglio bianco aprire porte da qui al mondo capovolto. Camminare sfiorando le cime, al becco irregolare dei natanti. Ci saranno gatti, occhi lontani, segreta urgenza della mia sfilata – nessuno saprà quant’è necessaria ma tutti avranno aria dalle porte aperte. E gli parrà normale. Non so ancora se uscirò dal quadro marino o se il mio regalo bianco rimarrà aperto per sempre, anche senza me dentro il vestito. So che voglio sulla pelle un grammo di carezze disordinate dal vento, le voglio ospitare in quel vestito di lino bianco, le voglio per dare agli altri un fiato e un respiro. Mentre cammino.