I piedi nell’eterno

Io ho già messo i piedi nell’eterno. Ho aperto piccole faglie nel tempo già vissuto che dal mio corpo versano luce di storia per sempre. Ieri pensando a questi anni bui ho rivisto i sorrisi dei nonni: perché ci confortavano? Perché erano perfetti di conclusioni ormai note su vicende anche durissime della loro vita. La soluzione è arrivata sempre: lo scioglimento delle sostanze dolorose nell’acqua del loro fiume non è mancato mai, finché scorreva quel fiume almeno, finché cioè erano vivi. E sapere come va a finire, esserci quando finisce, con tutti i brandelli che ogni passaggio comporta, è meno penoso che stare al centro della paura. L’infanzia che ho vissuto, le curve che ho preso, le ferite che ho avuto, la poesia che ho portato, la vita che ho generato: sono cose indiscutibili. Al centro della paura ho il conforto di questi frammenti di storia già completi, le cui particelle iniziano a staccarsi dal corpo e starmi davanti come carezze, pronte alla deriva nel cielo quando non ne avrò più bisogno. Avere i piedi in parte già nell’eterno, grazie a queste particelle storiche completate, è possibile però solo a chi ha avuto la fortuna (diciamolo) di restare vivo per tutto questo tempo, di tornare vivo ogni volta e capirne la bellezza. Solo se sei ancora presente e il tuo fiume scorre puoi sentirne le carezze trovando motivi, non dico speranze, che controbilancino la paura. E i vivi, i presenti, i fiumi attivi sono sempre una minoranza, pure tra quelli che respirano ancora: molti hanno i piedi sulla terra, ma non più sull’eterno.

Aspetto un bacio

Sul caro monte degli ulivi, dopo la cena, mi allontano dagli altri a un tiro di sasso e l’angelo mi viene di conforto. Nella lotta il sudore, in ginocchio, somiglia a gocce di sangue che cadono per terra. Mi rialzo, torno dagli altri e li trovo che dormono tutti per la tristezza. Tra stanotte e domattina è il potere delle tenebre, vestiranno di porpora le mie parole e non mi crederanno. Eppure, anche nel cammino feroce da qui al Cranio, i miei gesti daranno luce alle vite di alcuni. Malco da stasera si chiederà come ho fatto a risanargli l’orecchio mozzato dalla spada di Pietro; Pietro scaverà col pianto amaro la parte più umana di sé; Erode smetterà la sua lunga inimicizia con Pilato; Pilato troverà in me un riflesso alle sue domande sulla verità; Barabba non pagherà per la sua rivolta contro il potere e vivrà pensando all’omicidio commesso; Simone racconterà al figlio e in futuro ai nipoti di aver retto, tornando dai campi, la croce ingiusta di un profeta; uno dei miei compagni appesi al legno sarà il mio primo fratello in paradiso. Come vena di miniera il mio oro brillerà nello scuro delle carni lacere, fino all’ultimo fiato davanti agli occhi di mia madre. Ma ancora è presto, e sapere tutto questo in anticipo, anzi, rende la pena un macigno molto più grave. Ancora aspetto insieme ai grilli, ancora per poco. Aspetto un bacio.

All’incanto

La sera è questo vaso pieno di tutte le cose fatte e pensate durante il giorno. Ogni mattina il vaso è vuoto e lentamente comincia a riempirsi di nuovo con la prima azione. Ancora, fino a sera. Chissà quando, la notte, una fata passa a ritirare la merce e vende il carico all’incanto della stanchezza. Chi offre dieci, chi cento, chi mille, per farsi bello dicendo ho fatto, ho pensato. Così, dall’altra parte del tempo che di fiato e carne rimpiange ogni attimo tangibile, e dove è impossibile fare, impossibile pensare, i più ricchi fingono di essere ancora vivi e veri.

Sul metro dei quanti

Piccolo come diventa, può stare ovunque, nascondersi e non farsi trovare, passare la materia e certo uscire, quando e come vuole, da ogni poro. Invece resta dentro. Ridotto e stretto come niente al mondo, il cuore, la prima volta che porti un figlio al nido. È fisica, elemento più piccolo sul metro dei quanti non esiste. E le traiettorie! Impazzite sghembe nervose, accelerate al millisecondo, battono sulle ossa e sulle pareti di carne. Torni a casa, valuti il da fare, parli col portiere, fai bene le scale, infili la toppa e cedi – un altro vuoto: stavolta è nella mente. Si è staccato dalla mente un ramo intero. Nato da poco ma cresciuto subito forte, divaricato in mille legni verdi sottili per l’esposizione fortunatissima. Così fitta ne era la trama da fare ombra a terra e fresco per l’erba dove giocare. Adesso quel ramo vive ma altrove; altrove ma per poco; e tanto basta al laser del sole per incenerire le farfalle nate lì sotto. Così è l’ennesima novità, l’innumero esilio dal centro. E ogni volta non sai dove ti hanno posato, non sai da dove scrivi, da dove guardi, da dove pensi, tanto la vita ha rapito la vita a te stesso con altra vita mai ferma e lucente. E si scrive poco, sempre da una periferia, mai più dal centro; si guarda mai più dagli occhi; si ascolta mai più dalle orecchie solo nostre – sempre avuti, sempre avute, prima che l’amorino ti riducesse il cuore sul metro dei: “Quanti siete ora nella stessa vita davvero?”

Guerra

Per chi ha più di 300 amici, facebook è una guerra. Non ci credete, non ve ne accorgete ma è una guerra. Su chi è più *qualcosa, e su come essere meglio *qualcuno. Guerra all’ultimo presente: nessuna possibilità di vittoria. Zuckerberg però non vi ha mica costruito una casa ciascuno in cui fare abitare i vostri nipoti e lasciare tracce di voi nei cassetti dello studio con la finestra da cui in estate entra anche la scia del gelsomino. Mark se l’è cavata certo, ma con la sua invenzione non ha fatto la casa a nessuno. A nessuno, dico, con le sue mani. E questa cosa delle mani è fondamentale. A nessuno, con le sue mani ha fatto una casa davanti alla quale puoi farti fare una foto, stamparla e aspettare che ingiallisca. Eppure è ritenuto il padrone di casa nell’acquario blu. Casa senza mattoni, ma fatta di tempo: che ci metti tu. Una casa fatta da lui col tuo tempo, di cui non sei più padrone. Prima, lo abitavi in qualità di capomastro. Ora non più, per il solo vezzo di entrarci ogni giorno. Così si perde una guerra e si muore capendo tardi una grande verità: se si inizia a definire reale una cosa, significa che ce l’hanno rubata.

Notturlabio

La notte è fucina di passione, che il buio si viva come terra di approdo o buonora di una partenza. Di notte chiudi l’ultima pagina di un libro, l’esame è domani ma un po’ ancora ne hai per stendere sul cuscino le mille intuizioni selvatiche fiorite accanto alle glosse. Di notte ti alzi, domani raggiungerai a vela il capo remoto dell’isola, così incontri al porto gli amici e salpate alle quattro per sottrarre al sole dodici miglia di odissea. La notte fonda scalda il gelo delle passioni nere, ricovera i litigi nella fiacca, dona propositi ai refrattari incalliti. Era notte nell’orto che duemila anni fa dischiuse la passione suprema; notte, quando vagai tra i chiari delle piante e le giare cucite da mio nonno; notte, quando mi alzai con un motivo nuovo ancora nell’orecchio. Solo a notte ci corrispondiamo per quelli che siamo davvero, perciò gli amanti di Wagner la invocano risolvendo in un istante armonico di la bemolle la loro impossibile unione. Se il sogno è più bello quanto più sembra realtà, la notte non imita il giorno e mi nutre passioni che il mondo di fuori, a mezzodì, ha meno luce dell’anima mia.

Vocazione

Ieri mi è squillato il cellulare con un numero estero sconosciuto. Penso, ci risiamo coi tafani dei call-center, ma rispondo uguale: una volta su dieci è giusto anche far lavorare questi criceti innocenti. La cosa simpatica è che non cercavano me; ero già pronto a dire no, non mi interessa, e invece mi sono goduto l’equivoco, li ho lasciati parlare e ho capito il motivo della chiamata. In inglese vichingo hanno chiesto di un certo signor Zimmerman. Gli ho detto che avevano sbagliato, che però qualcosina la scrivo anch’io e su, via, la prego, mi dia un indirizzo a cui mandare un paio di testi, posso fare uno stage in sede, chissà, da cosa nasce cosa e vabbè, dai, sono certo che all’accademia servono bidelli, no no, aspetti, senta! Click, chiamata terminata. Un attimo dopo ho pensato: coglione, non gli hai detto che suoni. Credo che mi iscriverò a un corso per fare call-center. E diventare un tafano migliore.

Chagall

Chissà che sta facendo Chagall, come pura materia trasformata, intendo da buon erede del progresso scientifico, mica lo penso col cappello e le mani impiastrate di colore, no; ma chissà cosa farà in questo momento la sua metamorfosi, intendo, magari evaporata e già passata dall’aria al vuoto interstellare secondo la fisica quantistica ma pur sempre col suo nome finché ne esiste ancora la materia. Ecco, sì, allora cosa fa strano a dirsi: una polvere con un nome.

La bianchezza

Call me Ishmael (Herman Melville);
Chiamatemi Ismaele (Cesare Pavese, Adelphi);
Ishmael – chiamatemi così (Ruggero Bianchi, Mursia);
Diciamo che mi chiamo Ismaele (Bernardo Draghi, Frassinelli);
Chiamatemi pure Ismaele (Giuseppe Natali, UTET);
Chiamami Ishmael (Alessandro Ceni, Feltrinelli);
Chiamatemi Ishmael (Ottavio Fatica, Einaudi).

Tante sono le strade aperte dal naufragio del senso, una soltanto la bianchezza della balena; discutibile la musica di ciascuna soluzione, inconfutabile il mistero di una beltà primigenia. Cosa, nella vita, non è frutto di una traduzione?

Massimamente sogni

Negli ultimi giorni mi capacito di questa città Palermo che ti fa inabissare, sprofondare in precipitosa rovina di sensi mentre ci cammini a piedi infilzandoti nelle resurrezioni architettoniche dei vecchi palazzi bucati dalla seconda guerra; mentre vedi facce che facce sconosciute non sembrano esistere, ma solo volti infuocati che dicono famiglia ai tuoi occhi pronti a partire; mentre credi vera l’epifania che dà un senso a tutto, persino al nautoscopio visto da un palazzo con la faccia sulla Cala; persino al fine vita della tua scaturigine; persino all’ultimo alito di burattino che soffia dal ventre di uno scantinato nel teatrino delle beffe. Tutto questo ti stanca ma ne vuoi ancora; ne vuoi ancora ma ti stanca. E massimamente sogni di dormire in un cantuccio solo tuo con questi tesori brulicanti sul cuscino.