Le foto del Taj Mahal davano l’impressione di conoscerlo anche a chi non era mai stato lì, annota Sontag nel saggio Sulla fotografia. La fotografia riduceva la portata del presente, ogni distanza geografica, senza mostrare evidenze del suo essere comunque un’interpretazione, un “enunciato visivo” sul mondo. Divenne un modo di conoscere il mondo a cui non si ascriveva alcuna presa di posizione. Il tema è il rapporto tra immagine e conoscenza. Da una ventina d’anni, quando vediamo la foto di un bellissimo volto o un fisico mozzafiato – su carta o su schermo – sappiamo che potrebbero essere stati alterati e che, quindi, siamo davanti al risultato di un filtro applicato alla persona reale che, cioè, esiste ed è stata lì, su quel set o passerella. Pensavamo così di essere ormai abbastanza smaliziati, rispetto alla possibilità di conoscere qualcosa tramite le immagini. Un paio di anni fa, invece, vidi l’immagine di Trump acciuffato da alcuni agenti, nel tumulto dell’attacco a Capitol Hill, credendo che fosse successo realmente. Com’ero piccolo a quel tempo! Che nostalgia pinocchiesca di quel me stesso provo, ripensando alla mia ingenuità e allo stupore che ancora mi regalava. Non sapevo infatti che era una “foto” prodotta da una AI, non sapevo che avevano iniziato a circolare cose del genere. Trump non era mai stato lì, anche se io vedevo quella foto. Negli ultimi giorni ho visto immagini “vere” del papa con la tonaca bianca nel fango dell’alluvione in Emilia e una foto di Leonardo Da Vinci con Monna Lisa che ammiccano seppiati in posa da rivista patinata. Questo ulteriore scatto tecnologico renderà forse impossibile il lavoro agli storici di domani, ma nel presente ci salverà dalla schiavitù dell’immagine. Sembra assurdo, controintuitivo – ma come, proprio ora che tutti giocano col nuovo dispositivo! – eppure è così. Dopo essere stati educati al concetto di immagine alterata, sofisticata, che non riproduce le cose “come sono”, alla sofisticazione dei filtri risaputa ora si aggiunge anche la risaputa non veridicità dei soggetti rappresentati e della scena in cui sono inseriti. Senza che la natura artificiale dell’immagine sia rivelata da un dettaglio o una traccia che ne indichi l’artefice. Essendo ormai di dominio pubblico l’impossibilità di reperire qualsiasi segno che distingua la matrice anche apprezzabile della finzione, sarà sempre più facile e quasi fisiologico, a poco a poco, non “credere” più – o almeno, non più immediatamente – a nessuna figura, nessuna immagine – nessuno, anzi, si chiederà più se un’immagine è vera o totalmente inventata. Sarà solo un’immagine, prendere o lasciare: qualunque cosa “immagine” vorrà dire. Sarà una liberazione: non demanderemo mai più alle immagini alcun frammento della nostra ricerca di verità o documentazione o deposito fiduciario per altri aspetti. Torneremo a fidarci solo di chi avremo davanti a noi forse, scommettendo nella verità dei suoi occhi e del tono di voce e della storia in comune che solo noi sapremo essere vera. Spero che il mondo non diventi un manicomio in cui tutti ci chiediamo continuamente cos’è vero e cosa no, ma è proprio questo il punto: in ogni caso, ormai sappiamo già che non saranno le immagini a darci una risposta. Come mi ricordava un amico, è stato il Novecento il secolo dell’immagine. Ormai viviamo una nuova fase. Il dio Immagine è morto. Si tornerà ai corpi, al fiato e al contatto? Bello sarebbe, per quanto irrimediabilmente diverso rispetto alla volta in cui, verso il 2006, una anziana con cui parlavo di una cosa, dicendo “devo andare in Internet”, mi chiese: e dov’è?
società
Il nemico
La Finlandia inaugura un governo di destra e entra nella Nato che si espande a Est. Dopo la Svezia, ecco arruolato un altro paese che finora aveva gravitato tranquillamente a occidente senza bisogno di aderire all’alleanza militare americana. 1300 km di confine con la Russia. Il Messaggero, fra gli altri, sciorina con approvazione cameratesca il nuovo acquisto: “La Finlandia non ha mai abbandonato la leva obbligatoria, ha continuato a investire molto sulle sue capacità di difesa: può contare su una forza attivabile in tempo di guerra che può raggiungere le 280.000 unità. A dicembre 2021 ha acquistato 64 caccia F35 Lightning II dagli USA”. È inesorabile. Fra qualche mese sembrerà a tutti naturale entrare in guerra anche noi, andare lì a combattere, sentire di nuovo qui i caccia sorvolare i palazzi. Non si capisce cosa potrebbe evitarlo, se niente e nessuno c’è riuscito finora e da Ovest (parlo per la mia parte) arrivano sempre più spallate, si bocciano mediazioni non europee, non si considera manco per finta il papa, non si parla né di accordi col nemico né di un dopo Putin, cioè del dopoguerra. Siamo sempre più schiacciati nell’imminenza cieca del nostro ingresso fattivo, spinti dalla valanga di finti tentativi di negoziare, sabotaggi occidentali al gasdotto tedesco, omicidi eccellenti in Russia, misteriosi cambi di funzionari al governo ucraino, ecc. Nessuno ha posto limiti o ipotizza di bloccare il domino dicendo “fin qui ci siamo ma oltre questa linea di partecipazione o di condotta no”. C’è solo l’arma innescata e il dito sul grilletto. Caricano la retorica per dare patente morale a questo scempio, ricordandoci ogni giorno quant’è sanguinario chi però per decenni abbiamo rispettato, come ancora facciamo coi mercanti di schiavi in Libia. I morti avuti finora sono stati solo l’inizio. Ed è colpa del nemico, dicono. Più tardi diranno che è stata “più” colpa del nemico che nostra. E andrà bene uguale. Perché va già bene dire che è solo colpa sua, che l’ha voluto solo una parte. Che ci stiamo tutti solo difendendo. Quanto converrebbe dire solo la verità, fatta di paura e povertà incalzante, invece che continuare a dire quant’è simile al demonio il nemico. Il nemico.
Polvere
Ogni eccesso è polvere. L’eccesso di caldo, cenere. L’eccesso di freddo, neve. La neve è cenere gelida, la cenere è neve ustionante. Bianco e nero reggono ogni dialettica, irrisolvibile sorgente del fascino inquieto che siamo. Tutti. Ognuno è fascino inquieto, per l’umidità umana che giace al centro dei suoi eccessi. Almeno due, e di segno contrario. In questo irrompe il linguaggio odierno, spazzando via ogni ricordo dell’umidità umana in cui solo può crescere un seme. Il linguaggio odierno, fatto di “dentro o fuori”, “con o contro”, “buoni o cattivi”, “opinione o inesistenza”. Si raggiunge sempre meno il centro e aumenta così la polvere, neve nei cuori, cenere al di fuori. Pochi ricordano che il nostro meglio è farsi casa dei semi. E per ogni seme, un fascino inquieto, mistero interdetto all’ultima parola degli altri, più spesso mortificato invece al loro ultimo ascolto. Come di passi sulla neve, come una pioggia di cenere.
Un altro motivo
Gli esami del mondo non finiscono mai ma io oggi consegno il foglio bianco con dentro più me stesso di ogni merito o risposta pretesi, che guardo fuori dalla finestra i gesti del paninaro sul marciapiede alle prese col banchetto per l’intervallo delle 11:15, che penso alla grande palestra ancora vuota dove all’ultima ora vedrò la ragazza dai capelli rossi e le dirò: oggi c’era il tema di fine trimestre ma io sono venuto qui a scuola per un altro motivo.
Gomiti
Morirò senza gomiti. Quando si occuperanno del mio corpo si renderanno conto che per tutta la vita mi è mancata una parte anatomica. Capiranno che non ho mai avuto intenzione di farmeli crescere. Che sono arrivato alla fine facendo a meno di loro. Senza gomiti è difficile ma non impossibile abbracciare: puoi farlo chiedendo alla persona cara di mettersi parallela alla linea delle braccia. Per lavarti le mani basta allontanarti un po’ dal lavandino. Per guidare basta arretrare tutto il sedile e usare il cambio automatico. Non puoi mangiare e bere; non puoi vestirti da solo, né rifare il letto. Senza gomiti non puoi prendere in braccio tuo figlio, puoi solo fargli fare vola vola. Morirò senza gomiti però. Senza gli spigoli utili nelle competizioni della vita – competizione professionale, sociale, sentimentale e così via. Preferisco. Vivere nelle condizioni della sottomissione e della competizione provoca depressione. Senza nulla togliere a chi si fa il mazzo adeguandosi alle regole formali e informali di una particolare comunità. Anzi, onore al merito e alla loro fatica, dico davvero. Solo che io preferisco così; e non escludo nemmeno che non sia sintomo di stupidità: morire senza gomiti ma intero.
Deserti
Avanzano i deserti: è la vita adulta com’è sempre stata, o una descrizione dell’oggi per tutte le età? Gli anni aumentano la siccità e l’attuale situazione climatica è perfetta per descrivere l’immenso fossato che il tempo ci scava attorno da adulti – e sempre di più. Magari i ventenni di oggi hanno ancora un fiume di meraviglia a due passi e una rigogliosa ombra di relazioni alla loro portata. Spero che la retorica dei bei vecchi tempi andati sia solo una stronzata – come ho voluto credere finora – e l’avanzata dei deserti valga solo per me; spero che non sia verità anche per i più giovani, spero che vivano tra loro belle cose impossibili per me da immaginare. Perché crescere somiglia all’inesorabile spoliazione degli alberi intorno, e tu bruci al sole senza riparo; somiglia al cuneo salino che invade la foce seccando chilometri di entroterra, e tu sei flora fauna e raccolto compromessi. Somiglia, crescere, a un bagaglio sempre più pesante di consolazioni. Ieri, per esempio, ho visto tre pappagalli verdi volare da un balcone a un albero mentre tornavo a casa e ho pensato a Gino Strada: c’è un suo libro con questo titolo, non l’ho mai letto, Roma è piena di pappagalli verdi, ma quel volo mi ha fatto pensare a lui, a ciò che rappresentava e abbiamo avuto la fortuna di conoscere, perché avevo bisogno di pace. Oggi, altro esempio, nella mia ora di fila alle poste, ho rifiutato l’invito a entrare in un tipico litigio fra poveri facendo il populista, perché avevo bisogno di indicare chi ha una colpa più grande: quella situazione non si doveva a nessuno dei presenti, ho detto, ho smesso di prendermela con chi soffre i miei stessi disservizi, basta massacrarci fra noi! Basta, tifare il cattivo meno cattivo da sostenere per sentirsi dalla parte giusta; basta, essere stupiti dal consumismo bellico americano che ci trascina nel baratro. Io vedo ovunque gente stanca. Io pure sono stanca. E non c’entrano le nostre fatiche personali, è una stanchezza globale. L’ingiustizia è istituzionalizzata e gli accordi sporchi si fanno ormai stringendo la mano ai dittatori in diretta TV. L’impotenza ci sfinisce. Sia che ne siamo consapevoli sia che non lo siamo. Questo dice Giulia, un’amica che ho la fortuna di conoscere e riconoscere oasi nel deserto dell’età. Che avanza come una catastrofe, cara catastrofe.
Ciliegie
Ciliegie avvelenate ai soldati russi. Così, un titolo del Messaggero. Sono i dettagli che mi fanno impazzire. Al di là dell’uso che la propaganda fa di questa storia – a dimostrare che gli ucraini (categoria monolitica di individui) non vogliono i russi, contro quanto si dice invece in ambienti “putiniani”, che appartengano cioè allo stesso grande popolo, ogni ucraino avendo almeno un paio di parenti nella federazione – io penso alle ciliegie. Se la storia è vera, come solo certi dettagli inducono a credere, immagino i contadini di Melitopol che escogitano il piano. Immagino il rapporto quotidiano e la fiducia che essi hanno guadagnato, dopo settimane di occupazione, agli occhi del nemico. Finché un giorno, qualcuno pensa di avvelenarli e lo dice ai suoi. Da lì, inizia forse una discussione su quale cibo si adatti meglio come veicolo del veleno. Alcuni propongono verdure e ortaggi usati per le zuppe, ma no: ci sarebbero troppi passaggi in mezzo – la cottura, garantirsi di mettere il veleno prima di servire la pietanza, vedere quanta ne mangiano, capire quanto sia il minimo per causarne la morte – e poi chi lo dice che, ottenute le materie prime, i russi non vadano a cucinarsi la zuppa nel loro capanno? No, serve qualcosa di più immediato, qualcosa di plausibile come consumazione improvvisata, pasto del momento, magari un’offerta ai soldati direttamente dalle mani dei contadini, in segno di ristoro e acclarata accettazione di convivenza. Dobbiamo saltare il passaggio della cottura. A quel punto, qualcuno propone: usiamo la frutta. Un altro dice potremmo usare le ciliegie, hanno un sapore deciso, buono per mascherare l’eventuale gusto o retrogusto del veleno. E poi una tira l’altra, potremmo darne una normale dopo quella letale per nascondere subito l’eventuale sapore del veleno. Illuminati, i contadini annuiscono tutti. Sorridono? Non credo. Sono oltre, ormai. Fanno quello che va fatto. Uno di loro si guarda intorno, fino al tavolo di fòrmica. Fa due passi, afferra il cesto vuoto.
Borotalco
Ieri sera ho rivisto Borotalco (ma vale per ogni altro “documento” fino agli anni Duemila) e ho provato un’invidia mista a impressione dolorosa nel misurare la libertà in cui abbiamo vissuto quando la gente usciva di casa e, davvero, non c’era più, stava solo dove stava fisicamente; solo con chi stava fisicamente. Rispettando il tempo necessario all’altro per coprire le distanze. I legacci della reperibilità capillare hanno fatto ormai crollare tutto un sistema di “fiducia dovuta” nei confronti dell’altro, sostituendola con un sistema di “controllo legittimo” e immediato per cui, oggi, poter sapere ci induce a voler sapere (così, le dinamiche del desiderio in molti altri campi: se ormai posso, allora io voglio). Rispetto al precedente bisogno di tenerci legati ritrovando l’altro in un sistema di fiducia dovuta, da passare poi al vaglio fisico, oggi è la tecnologia che ci tiene potenzialmente legati, liberandoci dal bisogno di un successivo vaglio fisico. La vertigine provocata dalla sua capillarità è tale, anzi, e a essa abbiamo così associato il rilascio di endorfine, che siamo noi – oltre quella prima mutazione, in cui ancora eravamo solo inquisiti – a voler dire ormai agli altri, pure sconosciuti, dove siamo, che facciamo, senza più aspettare che ce lo chiedano loro alla nostra prima scomparsa. Così, certo, è ancora possibile che due sognatori fuggano insieme da una quotidianità opprimente ma ecco che, davanti al mare di Castel Porziano, tra una domanda sul segno zodiacale di Dio e le prime carezze clandestine, verrà voglia di fotografare il paesaggio o sé stessi, non per diffonderli necessariamente subito agli altri, ma già solo a garanzia di un potenziale futuro controllo di sé su sé stessi. Controllo che non faremo mai: nessuno rivede le mille foto inutili che scattiamo. Viviamo l’istinto di controllo sul presente, senza poi esercitarlo mai perché a nulla serve, se non come garanzia invece di una presa stessa sul presente, attenzione esclusiva che non riusciamo più a esercitare. Garanzia di starlo vivendo davvero quel momento, come per l’inconfessabile dubbio di esserci, presenti qui e ora, con la nostra sola cifra di carne e fiato attestabile, in passato, e già ben soddisfatta ad esempio dall’improvviso canto stonato di un brano di Dalla in coppia a squarciagola contro i pesci sott’acqua che manco si vedono. Ma ci fidiamo: nuotano lì sotto, che è tanto profondo.
Gli insepolti
Le oltre mille bare ammassate in un capanno al cimitero dei Rotoli, da anni in attesa di sepoltura, la notte escono e scivolano tra gli alberi pizzuti a prendere il fresco.
Salgono le pendici del Pellegrino per vedere le lampare davanti alla costa, giocano a rallentare i gatti svelti appresso ai ratti e, se c’è la luna, al chiaro si stricano l’un l’altra per togliersi qualche verme o insetto che le solletica troppo. Sembrano lumache ma al posto della bava spernacchiano l’olezzo di decomposizione che poi, per tutta la giornata successiva, si raccoglie di nuovo nel capanno visitato dai parenti e da rari giornalisti.
Il guardiano che all’alba apre i cancelli non capisce come mai la mattina presto non c’è puzza dentro quell’inferno vergognoso. Non si capacita. Come potrebbe? Non gli sfiora il cervello che di notte quelle tampasìano liberando il feto nostro nel cielo su Palermo.
“Il bello è che tutti si chiedono come mai ancora il Comune non ha risolto”, pensa tra sé ogni tanto. “Che fa, non lo sanno lo schifo dei politici? Ditemi invece com’è che colla mattinata, prima che arrivano le vecchie, puzza non ce n’è. Ditemi questo, amunì”.
– Tatò, tu niente sai, vero?
– Miaaoo, meoww, puurrrr.
Fatto bene
Penso al parametro di giudizio più usato sulle serie tv: è fatta bene, è fatta male. E mi sento come un utente di Netflix che inizia a stancarsi e vuole spegnere. Mi riferisco al film sulla guerra in corso. Non si tratta più, infatti, di parlare come cittadini che pretendono una buona informazione; si tratta di parlare ormai come spettatori che pretendono una storia fatta bene. Credibile cioè. Fin qui la propaganda (segno lampante che chi deve decidere ha già deciso cosa fare, a prescindere dal nostro volere) se l’è cavata: dalle storie di nozze fra soldati ucraini intrappolati, agli U2 che suonano in una metro a rischio bombardamento. Un racconto non deve essere credibile, dev’essere l’unico. Se non ce ne sono altri, sarà creduto. Per questo si vede un film alla volta in uno schermo solo, e non due in due schermi insieme. Qui assistiamo a un solo racconto in effetti, perciò finora lo abbiamo seguito senza tanti problemi. Ditemi voi però se il film non comincia a stancare. L’altro giorno, la felpa di pile di Zelensky è stata venduta a un’asta londinese per 105 mila euro. Ieri una competizione europea di musica è stata vinta dall’Ucraina, forte dell’appello di Zelensky. I musicisti vincitori hanno dichiarato: ora torniamo a combattere. Il principio di spettacolarizzazione che uniforma i diversi piani della realtà, però, vorrebbe che anche la Russia vincesse qualcosa. Altrimenti, per quanto sia l’unico, anche questo racconto inizia a diventare poco credibile. E noi a dire che non è fatto tanto bene, che i fatti che ci propinano sono fatti e strafatti e a noi, gente perbene, non piacciono gli eccessi. Zelensky, al momento tutto quello che tocchi diventa oro: avrei un dente da sostituire. Senza impegno, quando hai tempo. Tra una guerra e uno show.