Piccoli

Oggi il Sistema mi ha riproposto una foto di nove anni fa. Era la locandina di uno spettacolo per ragazzi che portammo al teatro Biondo di Palermo. Quaranta repliche. Col fondatore della compagnia siamo ancora amici, lui ha circa vent’anni più di me. Davanti a questa foto però oggi ho capito che siamo stati piccoli insieme. La vita di palco – quella prima di salirci sopra, quella apicale dello spettacolo, quella calda e morbida del dopo recita – immette in una dimensione onirica dove il tempo funziona in modo diverso. E non è un caso che si chiami atto la vita portata in scena, fiabesca o realistica che sia, eterno presente del gioco che fai con altri e, in sé, annulla ogni differenza d’età tra gli attori. Tutti appartengono allo stesso altrove dove chi è più grande e chi più piccolo è solo una finzione tra le altre. Lo stesso nome di compagnia indica il motore di questa presentificazione onirica: la relazione, l’esercizio continuo dell’ascolto, ascolto fisico dei compagni, per tenere il ritmo dello spettacolo ma più ancora per risolvere gli imprevisti sulla scena. Qui, nel mondo esterno, Ludovico ha ancora vent’anni più di me. Eppure siamo stati piccoli insieme. Per molto tempo.

Chiaro

Quando per la buca di un sasso, seguendo il ruscello che l’ha roso col suo corso, scendi dall’ultimo girone al chiaro mondo, la gravità si capovolge e trovi che la discesa era l’unica uscita possibile al cielo di un nuovo ringraziamento. Il fuoco prima battente le viscere della terra ora è lontano, fisso alla volta notturna, stella tra le mille a cui appuntare gli occhi umidi in compagnia di un amico. Un invito. Nel buio aperto della campagna il tempo si fa cura inespugnabile, benedizione di una terra ancora fertile. Il desco attira le volpi fuori dal mantello nero: non parlano ma girano pazze tra gli alberi per il calore del nostro cibo. Vogliono il pane dei nostri sorrisi, il vino dei racconti, il dolce dei silenzi. Dopo un sonno di lucciole sopra il cuscino è l’alba, la sveglia del fresco e il suono argentino delle greggi al ritorno. Più tardi verrà un altro amico – passa sempre, ma sta poco. E saranno altri doni, mani intrecciate, luce di nylon al pizzico della corda.

Stai

Una voce canta una parola aperta, Stai, disponibile a mille orecchie. Le mie ci hanno fatto casa per mobilia d’innumeri sali e scendi Roma-Palermo e, nell’aria, la bonaria invidia cacciata a volte per i tanti tutti lì che, a ogni ritorno, rispondono alle mie con le loro novità. Stai inventa la commozione senza vincoli di tempo o di materia: non è Resti, a cui serve la “res” – la cosa, l’oggetto, il corpo; ma non è nemmeno Sei, che ti definisce senza aver bisogno di alcun luogo. Stai va oltre la presenza fisica ma richiede un posto ed è nel petto degli amici, se abiti lontano: vive prima e, insieme, dopo il presente. La sua semplicità è una rocca inespugnabile. Così a volte le canzoni diventano vestiti.

Nella vastità

Le nostre vite procedono qui alla costante velocità del tempo, tra mare piatto, lente salite e cadute di schianto per i muri alti delle onde. È già successo di chiederci, con lo sguardo cambiato, hai più saputo niente di cosa sono diventato ogni volta che ho preso altre decisioni? Ma nella vastità oceanica che ogni giorno misura la nostra distanza di abissi sempre più umani, e ci fa sentire perduti in creature ben diverse l’una dall’altra, io so che la mia stella e la tua sono rimaste vicine: nate dallo stesso fuoco, la notte brillano ancora accanto sulle acque generose del pianeta, e così pure faranno quando saremo polvere che fruga le radici degli alberi. Un mistero senza nome ci ha fatto compagni nella luce che fulmina i corridoi dell’universo.

Sabbia

All’inizio siamo compatti, ci conosciamo e facciamo insieme cose belle, facendo bella ogni cosa: in compagnia di amici o parenti più affini di altri, cadiamo nel presente al calore di un affetto in primo piano su tutto. Passano gli anni e, dopo tante altre felici cadute insieme, per mille motivi decenti e riassumibili in una sola parola – vita – ci disgreghiamo. Smettiamo di essere compatti e, uno a uno, ci stacchiamo come briciole dalla crosta: un giorno gli uni vedono cadere nel presente gli altri, restando però nella parte alta dell’ampolla di vetro e scoprendo di essere sempre stati sabbia, mentre i compagni di tanti anni passati insieme rimpiccioliscono nel vano oltre la strettoia. Il tempo così fa scendere, soli, uno alla volta nella clessidra, i grani dell’universo umano. Molti sognano di trovarsi accanto anche dall’altra parte. Qualcosa in loro alimenta una fiducia nel rimescolo del caso.

Una cena, figure

Io mi sento sempre dentro una compagnia con voi, anche se ormai ho gli zigomi pieni di calli: sono sette anni che questi mille chilometri mi prendono a pugni. La lontananza è Michelangelo che lavora il marmo e dalle nostre ultime figure trae lineamenti nuovi, sconosciuti, estranei. Ti sento chiamare fratello altre persone, ti vedo sorridere dopo aver fatto un po’ d’amore con loro che non conosco, ma penso lo stesso che siamo legati da un cemento armato contro le mie assenze d’acciaio. Ultimamente abbiamo fatto cose molto belle, dici, senza capire che sono proprio quelle senza di me a farmi sentire più lontano da voi. E più lontano sono io, più belle mi sembrano le cose che mi racconti e magari, se fatte insieme davvero, non mi direbbero uguale bellezza. Perché sarebbe cagionevole, esposta agli umori, ai bronci e ai tempi morti che sappiamo della vita. Allora non vi manchi di farne altre mille, cose belle senza di me – fossero mille i giorni che ci separano – ma al prossimo giro farne ancora una insieme, non per forza davanti al pubblico; una cosa più intima, anche piccola, solo una cena. E colmare di storie le mutue assenze, darle alla confluente bellezza del racconto e ritrovarci nelle nostre ultime figure, dentro quella compagnia, come un marmo di nuovo al suo posto. L’uomo all’uomo passando smette di fare cose e, solo, ne diventa una bella: un racconto.