Ogni eccesso è polvere. L’eccesso di caldo, cenere. L’eccesso di freddo, neve. La neve è cenere gelida, la cenere è neve ustionante. Bianco e nero reggono ogni dialettica, irrisolvibile sorgente del fascino inquieto che siamo. Tutti. Ognuno è fascino inquieto, per l’umidità umana che giace al centro dei suoi eccessi. Almeno due, e di segno contrario. In questo irrompe il linguaggio odierno, spazzando via ogni ricordo dell’umidità umana in cui solo può crescere un seme. Il linguaggio odierno, fatto di “dentro o fuori”, “con o contro”, “buoni o cattivi”, “opinione o inesistenza”. Si raggiunge sempre meno il centro e aumenta così la polvere, neve nei cuori, cenere al di fuori. Pochi ricordano che il nostro meglio è farsi casa dei semi. E per ogni seme, un fascino inquieto, mistero interdetto all’ultima parola degli altri, più spesso mortificato invece al loro ultimo ascolto. Come di passi sulla neve, come una pioggia di cenere.
ascolto
Fuorilegge
Nel cunto di oggi a messa Yeshua è presentato al tempio dai genitori per adempiere ogni cosa secondo la Legge. Lo riconosce un uomo nel cui nome è segnato l’ascolto tra Dio e la Storia. Mi piace credere che Simeone riconobbe nel bambino il vero liberatore, non quello che deluse le aspettative di Giovanni. Voglio credere che l’uomo giusto capì di non avere davanti un ribelle politico ma un fuorilegge spirituale: il volto di chi spezza ogni istituto creato per dividere i buoni dai cattivi, gli autorizzati dai non autorizzati, chi può fare la comunione e chi no, chi posso amare e chi no, chi può sposarsi e chi no per servire la comunità nel suo nome. Yeshua fu l’ultimo costretto a piegarsi alla legge – non per seguirla ma per compierla, esaurire cioè ogni tradizione portando il necessario da questa parte, nel divenire. Senza saperlo, i suoi genitori depongono così nel tempio una bomba a orologeria. Distruggerà ogni residua schiavitù dell’uomo rispetto al sabato, sostituendo a dei semplici mattoni il sangue e la carne di ciascuno, proprietà interdetta alla gestione di amministratori esterni. Contraddizione di una legge che impone la fine delle norme; spada nell’anima prevaricatrice che millanti ispirazione divina. La sua nascita aveva già convocato con i magi la sapienza orientale, notoriamente fondata sul principio della vitalità più che su quello della verità: deporre l’intelligenza che separa ogni cosa, scegliendo l’ascolto del modo in cui la respirazione passa nel tra del corpo mantenendolo vivo e animato. Su quella dedita alla verità e alla direzione in cui vado, cresca allora e si fortifichi in me più l’attenzione alla vitalità e al modo in cui mi evolvo, riverbero continuo della luce dai margini al centro, dal centro ai margini.
Il silenzio positivo
Non è vero che chi tace acconsente: chi tace sta zitto, ricorda Francesco Nuti. Spiazzante, meraviglioso e vero. Oggi pensavo a un altro detto simile: nessuna nuova, buona nuova, e ho visto chiara l’enormità della cazzata che è. Dare il bene per scontato. Parafrasando Nuti invece nessuna nuova, chissà che succede. Mistero, incognita, silenzio, distacco, lontananza, cecità, assenza, mancanza. Eppure, la fortuna di questo detto sta nella atavica convinzione che scrivere (o comunicare in generale) abbia a che fare più col brutto che col bello: scrivo per sfogarmi, capirmi, lasciare memoria ai posteri, eccetera. Tutta roba allegra, insomma. Crescendo, poi, questa cazzata del silenzio positivo prende sempre più spazio nella convinzione degli adulti che, tra mille pensieri e impegni incalzanti, se vale la pena comunicare qualcosa ai loro cari e amici, danno precedenza alle cose spiacevoli. Come fossero quelle che hanno più effetti su di noi. E ci perdiamo il meglio. Non comunicare il bello, fosse anche minimo, come solo un pomeriggio di euforia in mezzo all’alto mare di una stagione buia, fa dimenticare sempre più innanzitutto a noi stessi che c’è anche del buono. Così lui sparisce dall’orizzonte. Lo sguardo invece va allenato, altrimenti ci costruiamo da soli un paio di occhiali atti a vedere solo una cosa o, peggio ancora, ci abituiamo a parlare del bene in forma esclusivamente concessiva, col perenne sottotesto ma sì, dai, in fondo. Ecco, io voglio cavarmelo dal fondo, tutto il minimo bene che incrocio, raccontandolo ai miei cari. Scrivere a uno di loro che è stato bello vederci, volevo dirtelo, perché spesso – non so perché, ma è così – crescendo ci si tiene sempre più tutto per sé, non solo le cose brutte, ma anche quelle belle. Come fossero scontate. Quando invece si paga sempre a prezzo pieno, eccome, la felicità.
Una visita
Mettere in pratica un ascolto suscita gioia e movimento. Una ragazza incinta così fa una strana visita: c’è una sua parente assai più anziana, ad Ain-Karem, la zona più lontana del suo paese. La gravidanza è ancora in prima fase, ma il viaggio in carovana per le montagne terrorizzerebbe chiunque. Nulla invece è impossibile alla gioia, e la visita non ha freni: visita della quattordicenne alla cugina, di astronomi ai rifugiati, di genitori alla comunità e poi in proprio, senza più genitori, visita ovunque. Movimento. Le relazioni sono contagiose e la gioia, anche quella fraintesa, viaggia in fretta. Intanto, nel sale dell’attesa rispondente a ogni visita, chi si incontra confida all’altro auspici e intenzioni di cura per il veniente che è già lì. E danza nell’utero in sussulti di chiarezza: adesso il mondo pare un grembo e nella sua forma si capovolge facendo rotolare tutti i criteri del passato. Adesso beatitudine e miseria si cercano con furore di amanti. Da loro nascerà presto un’attenzione nuova, interesse e devozione; occhi di gioia assurda. E così un altro movimento, un’attesa e una visita.