Pacifico

Ieri sera ho fatto la prima lezione del corso, evento che regala sempre al giorno dopo il sapore di una domenica settimanale. Oggi porterò il motorino dal meccanico, cambierò il filtro anticalcare alla caldaia, telefonerò all’assistenza che ha in ostaggio la lampada difettosa, continuerò a spulciare l’archivio di Franco per il mio progetto, limerò degli acrostici che voglio regalare per Natale, svuoterò la lavapiatti prima che la maestra torni da scuola, mi chiederò ancora come rispondere al mio lavoro che implora novità, masticherò l’attesa per la gita a Firenze dove il 16 novembre racconterò il mio libro alla Sit’n’breakfast, andrò a comprare almeno le casse d’acqua al mercato più vicino e, tra una cosa e l’altra, mi siederò al piano giocando fuori dal tempo per smettere un attimo di farmi domande. Sarà una giornata di quieta vigilanza, semplice su attività proprie dell’esserci nel tempo e nello spazio, pacifica com’è pacifico l’oceano a te adesso più vicino – beato il sole che il giro del mondo lo fa tutti i giorni, mi hai scritto nella mia notte matura aspettando che la tua notte neonata attenuasse gli ori e i rossi del lontano ovest; anche queste, parole tue. Nudo contro l’azzurro o spento dal fitto di nuvole, beato è il sole e pacifico, pacifico il mio giorno.

Enza

C’era questa povera donna, Enza, Enza D’affetto, amava moltissimo spedire e ricevere lettere, si può dire vivesse solo per quello, ma in trentacinque anni ancora nessuno le aveva risposto mai, nemmeno due righe su una cartolina o un telegramma. Aveva scritto al mondo intero: parenti vicini e lontani, amici vecchi e nuovi, bei ragazzi di cui si innamorava e altri che sapeva amanti di grafia a mano e corrispondenze, colleghi di lavoro, vicini di casa e sconosciuti presi a caso da ogni tipo di elenco. Immune a ogni genere di lusinga, il mondo intero continuava a tacere perché non voleva ammettere la sua grave mancanza, dovendo iniziare qualsiasi risposta con le parole Cara Enza D’affetto. Enza lo sapeva bene ormai, non si illudeva, e sapeva pure che per riuscire a parlare col mondo le bastava cambiare nome: che sarà mai, un paio di pratiche, mezzora di coda all’anagrafe e avrebbe ricevuto dal mondo intero tutto quello che lei gli aveva già corrisposto. Il dramma di Enza però, di questa povera donna, stava nel fatto che se c’era una cosa, una sola a cui teneva più della corrispondenza, quella cosa era il suo nome, e non perché fosse proprio quello, ma perché quello le avevano dato alla nascita. E lei non poteva essere un’altra da quella che era, no: il mondo allora avrebbe risposto a un’altra, non più a lei per come si era firmata mille volte con tanta speranza. Il primo che mi risponderà, continuava a dirsi, diventerà mio marito e allora sì che avrò un nome diverso. Un giorno partì per chissà dove, in cerca di nuove persone a cui scrivere, e dopo alcuni anni ci giunse voce che Enza non c’era più, che era morta. Nessuno di quelli che erano con lei conosceva nessuno di queste parti, per avvisare direttamente della sua scomparsa, così oggi non sappiamo che vita conducesse ormai, se fosse riuscita a sposarsi o meno, quindi nemmeno se sia morta “naturalmente” o si sia invece tolta la vita per lenire il dolore di tanto silenzio. Sappiamo solo che Enza se n’è andata col sorriso sulle labbra e ogni giorno, ci chiediamo, con quale nome.