Vogliamo nascere

Sento una grande fitta al muscolo dell’attesa: doveva arrivare, dovrebbe arrivare – ancora spero, – un pacco per me entro domani mattina, così che possa portarlo giù a Palermo. E ancora oggi non è arrivato. Si contrae il muscolo di un’attesa lunga anni, ancor più nell’imminenza del compimento. Si compie il tempo attraversato e soffro ogni spasmo del travaglio. Da qui a domattina se mi facessero un tracciato riempirei il foglio di impennate e precipizi nella corsa al ritmo di un segnale acustico forsennato col corpo stretto dalle cinghie. Basta. Vogliamo nascere. C’è ancora tempo fino a domani.

Arriva

Arriva l’ultimo mese, è qui, dicembre, ora. Ho già iniziato a collezionare pensieri positivi per il bagaglio spirituale che servirà. Il viaggio è impegnativo, quello tra gli affetti più cari, da cui ho staccato il quotidiano migrando per lavoro tanti anni fa. L’avrei staccato ugualmente, forse, per l’istinto che chiama alcuni a crearsi una retroguardia amorosa a cui pensare o tornare nei momenti più duri sulla prima linea. Le risorse per fortuna non mancano: tra libri e maglioni porterò giù a rinforzo morale (mio e altrui) due belle notizie sulla mia attività e l’impazienza di conoscere una nipote nata a sant’Andrea di fine novembre. Mi serviranno pure le belle cose che troverò già lì ad aspettarmi, per rispondere ai nervosi agguati del dolore, previsti per motivi strutturali e contingenti. Ma come dice un’amica Avvento è una parola bellissima. L’attesa di qualcuno che viene è un’esperienza bellissima. Così, se alcuni diletti è anche me che aspettano, il mio ritorno – come dicono dalla loro prospettiva – io metto nel bagaglio anche il ringraziamento d’essere motivo di bellezza per alcuni, oggetto di un’attesa. A mia volta, aspetto l’arrivo di tanti abbracci, una pronuncia delle cose, l’odore d’arancia e manderino, la vista del mare, l’antico ritrovo di una villa, la possibilità di dire “a stasera” e altra improvvisata gioia senza scorie. Ci sarà tutto questo insieme agli agguati, è la vita e, credo anche, un’accettabile definizione di felicità. Quello che mi fa sentire più a casa forse la notte sul mare, all’andata o al ritorno, tra due sponde del Sud.

Senza pelle

Sapevamo di avere organi e vasi sanguigni, vene arterie e capillari ovunque, tessuti molli tendini e cartilagini, mucose umori e tutto il resto, ma c’era la pelle a coprire, difendeva l’interno dell’organismo e il suo esterno, cioè i nostri occhi. Sapevamo ma non eravamo consapevoli davvero di cosa c’era sotto e c’era sempre stato. Adesso invece io posso vedere il video fatto col cellulare a una donna che spazza il davanzale della finestra raccogliendo i vetri di una casa scossa da una bomba in Ucraina; vedo il raduno di donne e bambini nei sotterranei di una città spettrale battuta dalle sirene antiaereo; vedo la corsa di un carro armato che schiaccia un’auto nella strada grigia bloccando un anziano tra le lamiere. Indietro non si torna, sarebbe inutile dopo aver visto cosa c’è sotto la pelle, sarebbe inquietante riparare la coscienza con il trapianto di nuova pelle o usando una guaina artificiale. Adesso è tempo di gestire questa nuova acquisizione, di imparare come si sta nella chirurgia d’urgenza in cui hanno trasferito il mondo che si vede pulsare senza difese, esposto alla luna e al sole e alla violenza degli elementi, anzi, a quello che siamo e siamo sempre stati. Siamo ancora più vicini alle cose, alle migliori e alle peggiori. Con tutto lo sgomento che dovremo elaborare.

Talismano

Nel cosmo esplode senza tregua un’infinità di stelle e pianeti, uno per ogni cuore furioso che qui di notte brucia senza luce sapendo che oltre quel dolore non lo aspetta alcuna guarigione. I corpi celesti si polverizzano generando onde concentriche nella sordità del vuoto spaziale, perché ogni corpo disperato sulla terra resti intero a ospitare l’esultanza della gioia per tutt’altro, quando sarà passato l’ennesimo attacco: la trafittura tende le radici di un bene preteso unicamente per sé, non per altri e nemmeno per i figli. La rabbia per il negato diritto alla felicità ramifica detonazioni nell’universo per ogni anima infilzata sulla terra. Non sarebbe così immenso il cosmo se non dovesse ospitare – e c’entrano appena! – tutti i fuochi accesi negli umani abissi di solitudine. Dov’è corto il respiro, come una sintassi di lingua in codice, una miccia innescata nella materia oscura, un sogno da dimenticare prima dell’alba.

Fisicamente

Ho la finestra chiusa ma ogni goccia di pioggia sull’asfalto finisce lo stesso dietro la nuca. Negli occhi mi sfrigola un soffritto di paprika e cipolla da stamattina. Le spalle sono tiranti di un aratro che pettina il campo per la stagione della coltura. Se giro il collo le ossa cantano come noccioline in un bastone della pioggia. Sulla testa il covone dei capelli allungati per evitare il barbiere si fa piombo a ogni asciugatura e mi sbilancia di lato. Il fiato corto dà ritmo sincopato all’ansia che arrovella i subbugli dello stomaco vuoto. Ogni gesto accavalla sui muscoli fiacchi l’ennesima piega come sulla carta per cavarne un aereo affilato. La gola è un pozzo che non guardo ma forse al fondo c’è polvere di vetro. Mi dico: è metà novembre, è sempre stato così, le noie fisiche dell’umido, il fastidio oculare del grigio nuvoloso, lo schiaffo dello sbalzo termico tra fuori e dentro. Cosa batte nella testa iperbarica? Il sonno arretrato, la scaletta degli impegni, il richiamo dell’orologio, la voglia di non fare niente, la telefonata di ieri sera, e ben altro che più compone l’essere vivi. Sorrido, ma non si vede. Non si deve vedere: è il patto tra gli orsi felici e il letargo.

Ritorno

La vera vita è un ritorno consapevole, è la decisione di tornare: l’amore è il motivo del ritorno. Da questa parte del mondo, le esistenze lunghe ormai non risparmiano bufere a nessun ideale, relazione o attività scelte all’inizio per istinto o a ragione. Tutto crolla almeno una volta, e si spalanca il metro dell’amore. Il ritorno non è affatto scontato e spesso non si fa riconoscere. Il più delle volte si trucca da balzo in avanti, liberazione, ma è il ritorno a un sé prima negato. Altre volte è la conferma assurda dell’ideale, della relazione o dell’attività crollata su un limite inatteso: noia, dolore, distacco, disillusione. Le parole – ho capito – sono sugheri insufficienti ai naufraghi del tempo? Io ci ritorno lo stesso. Chi torna a qualcuno o a qualcosa, dopo averne vissuto il limite, non lo lascerà più e finalmente potrà coltivarne il mistero. Il silenzio che abita in mezzo alle note, la musica tenuta da certe scritture, la luce inspiegabile che fanno alcune coppie. Per ciò che dell’amore sta in oltre, scelta di campo a sconfitta già avvenuta, accoglienza delle piaghe spalancate: dimora dei comunque, dei nonostante, degli eppure, dei malgrado. Felicità imperfetta, perché di carne. Sangue infuocato sulla pace controversa della sapienza.

Fiamme

Quale vita senza incendio? Chi non sa la paura delle certezze crollate, la violenza privata dello stare al mondo? Ieri le fiamme hanno divorato il bosco di querce che dal milleduecento reggeva il tetto a Nostra Signora di Parigi. Le illuminazioni rosseggiano imprimendosi in fila nella memoria: l’altro ieri era l’orlo infuocato del buco nero, ieri la guglia ardente del monumento. La vita però non è un museo dal clima a tenuta stagna. Siamo fatti di temporali e schiarite, i primi senza riparo, le seconde pronte all’amo. Il sole-pesce guizza nel celeste, ma è vero: al vento molte lenze non superano gli aquiloni. Finché una mattina, il tiro alla schiarita, ormai fatto anche solo per gioco, andrà oltre la carta e allora mi vedrai tornare a casa con la stella. Sarà un giorno come gli altri. Le fiamme di ieri non saranno più maledette, fonderanno anzi la nostra storia dando forma smagliante alla buona reinvenzione di noi. Negli occhi avremo un furore, misto di ottusa fiducia e gioco fine a se stesso, compagnia mai respinta del tutto e desiderio di vivere insieme le bufere, penetrare la paura scarnificante e la solitudine fino al loro fondo bucato. Al bacio della stagione per il feroce rinnovo della vita, unico possibile epilogo in natura, e in Nostra Natura di Uomini.

Non ce n’è uno

Non ce n’è uno che sfugga alle ferite. Per tutti e più volte nella vita, la notte si accende come un giglio di sangue impalandoci davanti a una cruna. Allargami ad accogliere il pianto e la mia debolezza.
Poteva andare tutto bene fin lì, oppure no: magari il fulmine cade annunciato da un lento cumulo di nubi. L’esigente libertà di cui siamo rivestiti ci chiede comunque se passare dritti per la strettoia o restare al di qua della tagliola a distoglierci creando nuovi fantasmi. Davvero non ce n’è uno che sfugge. Concedimi la grazia della resa, la fioritura della pelle che muta.
Ma io ho la bellezza! dicono molti. Ed ecco, la ferita di questi cercatori di protezione è sanguinolenta come un assedio, è anzi la più dolorosa, perché l’incanto estetico scava un vuoto al centro che rinnova solitudini di ferro, limiti a una relazione di carne con l’altro, il diverso da sé, unica e difficile speranza di vita. Di essere sconfinato, *sottile e forte, stremato e forte, debole e forte… forte*.
Solo questa apertura garantisce una primavera dopo il morso della cruna, non l’oblio della ferita ma il suo opposto: l’arto mutilato si integra nella nostra aura dilatando l’aria che ci accompagna, nutrita dalle nostre scelte. Se si sceglie di ritrovare la vita sfuggendo ai fantasmi, certo. Almeno a quelli. Perché alle ferite no, non ce n’è uno che sfugga. Siamo tutti creature fino alla fine.
Ma insieme si può stare davvero.

* da questa meraviglia di Eufemia.

Di sangue

Cadono giorni di paura e fitte
nel turchese convalescente,
guardare in faccia il mistero
costa una ferita
da frequentare e domande
aperte per sempre.

Come una beffa la primavera
nasce dalla rugiada
delle tue notti insonni, amore mio
dal sole che ti esce
ora con gli occhi al glicine
gonfio di trauma.

Nell’altalena di fulmini
tra la camera vuota e la cucina
quando ti abbraccio
Dio mi attraversa, dice
la vita è più grande
di un solo giorno di sangue.

Perché noi rimaniamo, amore
come una preghiera
assurda sui crolli al telefono,
il vivo della nostra pelle
e questo magone
che inghiotte tutta la terra.

All’amore che ti ha generato

La mia anima è una salda colonna per il tuo dolore: lasciati cadere inerme, appoggiati, osso di insonnia, lembo della prima carne che ti ha generato. La mia anima ti darà linfa e i gangli attecchiranno ai giorni di nuovo. La colonna allora si dissolverà nella luce e la tua anima tornerà alla corsa: la vita è innegabile, si posa di forma in forma. Alto nel diritto, calmo nella bufera, duro alla fatica e dignitoso, darai fiamma all’amore che, già prima di questa caduta, ti ha generato per la seconda volta: come padre, hai un destino di sapiente nei misteri del buio, impatto di meteora al suolo fecondo. Ti guiderà nel semplice la forma di un cratere sulla superficie di Venere.