Ja

A quattordici anni Enzo Camerino fu caricato a Roma con tutta la famiglia sul vagone piombato diretto a Auschwitz, insieme a una cinquantina di altre persone. Era l’ottobre del 1943. Scesi dal treno, trovarono solo tedeschi e cani: chi può lavorare si metta da una parte, chi non può si metta dall’altra. Suo padre aveva combattuto i tedeschi nella prima guerra e capiva un po’ la lingua; sarebbe morto sotto i calci di un soldato, irritato da una sua caduta a terra per sfinimento e denutrizione. Appena arrivati, come prima cosa li portarono a fare il bagno e poi gli fecero il numero. Su richiesta, ora Enzo rimbocca la manica della giacca e mostra la pelle: 158509. Non è un tatuaggio, è il suo marchio da bestia: aiutava i muratori a portare i mattoni. È il suo numero, ribadisce il giornalista. Ja, scatta Enzo allagando l’universo. Ha 84 anni e vuole – vuole, ha detto – che tirino fuori un libro per gli studenti, che lo studino, che no che glielo fanno leggere, ma lo devono studiare e devono pensare a quello che abbiamo passato e che può essere che ripasserà. Dopo quanto le è successo, ha creduto ancora, ha continuato a credere? Ja, questo sì. Il giornalista nota con scandalo quel secondo ricorso automatico alla lingua contratta nel campo e lui dice, Oh scusi, mezzo sorridendo. È perché parlavo il tedesco, prima; adesso parlo l’inglese e il francese; per due anni e mezzo ho parlato il tedesco, e me l’ero imparato bene, i giovani prendono subito la lingua. Dopo, nel 1957 sono andato in Canadà, dove ho trovato lavoro e ci sono ebrei che parlano anche il tedesco e allora ho continuato a parlarlo, il tedesco. Un giorno ho detto, basta col tedesco, e mi sono messo a parlare inglese. E si può capire perché, chiude il giornalista ringraziandolo e passando ad altro. Altro, che alla lingua di Enzo non sempre riesce.