Arriva

Arriva l’ultimo mese, è qui, dicembre, ora. Ho già iniziato a collezionare pensieri positivi per il bagaglio spirituale che servirà. Il viaggio è impegnativo, quello tra gli affetti più cari, da cui ho staccato il quotidiano migrando per lavoro tanti anni fa. L’avrei staccato ugualmente, forse, per l’istinto che chiama alcuni a crearsi una retroguardia amorosa a cui pensare o tornare nei momenti più duri sulla prima linea. Le risorse per fortuna non mancano: tra libri e maglioni porterò giù a rinforzo morale (mio e altrui) due belle notizie sulla mia attività e l’impazienza di conoscere una nipote nata a sant’Andrea di fine novembre. Mi serviranno pure le belle cose che troverò già lì ad aspettarmi, per rispondere ai nervosi agguati del dolore, previsti per motivi strutturali e contingenti. Ma come dice un’amica Avvento è una parola bellissima. L’attesa di qualcuno che viene è un’esperienza bellissima. Così, se alcuni diletti è anche me che aspettano, il mio ritorno – come dicono dalla loro prospettiva – io metto nel bagaglio anche il ringraziamento d’essere motivo di bellezza per alcuni, oggetto di un’attesa. A mia volta, aspetto l’arrivo di tanti abbracci, una pronuncia delle cose, l’odore d’arancia e manderino, la vista del mare, l’antico ritrovo di una villa, la possibilità di dire “a stasera” e altra improvvisata gioia senza scorie. Ci sarà tutto questo insieme agli agguati, è la vita e, credo anche, un’accettabile definizione di felicità. Quello che mi fa sentire più a casa forse la notte sul mare, all’andata o al ritorno, tra due sponde del Sud.

Traboccare

Siamo fatti per traboccare. Tutto è più grande di noi – tutto ciò che conta, almeno. Quando non ci capacitiamo più di una letizia è bello iniziare a traboccare felicità; quando non possiamo più contenere un dolore è brutto traboccare assenza. In entrambi i casi è come risuonare e i corpi è come se li usassimo – o i corpi usassero noi – per ospitare la persistenza di un evento già dato, un gesto ormai compiuto, un suono emesso, un liquido versato. Si distende così in noi, tracimando, un presente che non scade, non finisce. Niente è lasciato alla decisione nostra: quale onda sonora far risuonare, se sarà una letizia o un dolore a farci traboccare. Sappiamo solo che tutto è più grande di noi. Va bene quando siamo piccoli e così, anzi, ci sentiamo pienamente parte del vivo mondo, senza alcun diaframma tra lui e noi, in regime di assoluta identificazione; fa male quando capiamo da grandi che non c’era alcuna promessa, un giorno, di poterlo contenere il mondo vivo, noi stessi. Non possiamo contenere interamente ciò che siamo perché è sempre più grande di noi – se conta veramente – possiamo solo esserne parte. Quello che siamo è più grande di noi, ecco. Rispetto a questo, non ci resta che una cosa: traboccare, risuonare.

Il silenzio positivo

Non è vero che chi tace acconsente: chi tace sta zitto, ricorda Francesco Nuti. Spiazzante, meraviglioso e vero. Oggi pensavo a un altro detto simile: nessuna nuova, buona nuova, e ho visto chiara l’enormità della cazzata che è. Dare il bene per scontato. Parafrasando Nuti invece nessuna nuova, chissà che succede. Mistero, incognita, silenzio, distacco, lontananza, cecità, assenza, mancanza. Eppure, la fortuna di questo detto sta nella atavica convinzione che scrivere (o comunicare in generale) abbia a che fare più col brutto che col bello: scrivo per sfogarmi, capirmi, lasciare memoria ai posteri, eccetera. Tutta roba allegra, insomma. Crescendo, poi, questa cazzata del silenzio positivo prende sempre più spazio nella convinzione degli adulti che, tra mille pensieri e impegni incalzanti, se vale la pena comunicare qualcosa ai loro cari e amici, danno precedenza alle cose spiacevoli. Come fossero quelle che hanno più effetti su di noi. E ci perdiamo il meglio. Non comunicare il bello, fosse anche minimo, come solo un pomeriggio di euforia in mezzo all’alto mare di una stagione buia, fa dimenticare sempre più innanzitutto a noi stessi che c’è anche del buono. Così lui sparisce dall’orizzonte. Lo sguardo invece va allenato, altrimenti ci costruiamo da soli un paio di occhiali atti a vedere solo una cosa o, peggio ancora, ci abituiamo a parlare del bene in forma esclusivamente concessiva, col perenne sottotesto ma sì, dai, in fondo. Ecco, io voglio cavarmelo dal fondo, tutto il minimo bene che incrocio, raccontandolo ai miei cari. Scrivere a uno di loro che è stato bello vederci, volevo dirtelo, perché spesso – non so perché, ma è così – crescendo ci si tiene sempre più tutto per sé, non solo le cose brutte, ma anche quelle belle. Come fossero scontate. Quando invece si paga sempre a prezzo pieno, eccome, la felicità.

Invaso

Da un’altra parte, che conosco, lontano da qui organizzano una festa importante per stasera e nelle case degli intimi si cucina in abbondanza già da due giorni. Da un’altra parte, che conosco, lontano da qui marito e moglie sono appena arrivati in aereo per una fiera a lei cara, aperta fino a domenica. Da un’altra parte, che conosco, lontano da qui una persona fragile e bella si chiede quando uscirà dal lavoro per raggiungere il cugino tornato ieri in città. Da un’altra parte, che conosco, lontano da qui un uomo ripensa felice alla raccolta di olive fatta qualche giorno fa, il ritorno tanto voluto alla natura lo ripaga di alcune scelte difficili. Da un’altra parte, che conosco, lontano da qui una donna rinata mille volte consuma il riposo pomeridiano nella sua casa buia prima di rimettersi a scrivere poesie. Ma io ti ho appena vista con la coda dell’occhio, passavi nella stanza che si apre alla mia e fa riva alla luce invasata in casa nostra dal sole delle cinque: le fate animano i toni pastello di tutti i ripiani e le pareti. Si vedono ora, in controluce, le ragnatele del bene che conosciamo e non toglieremo mai più.

Mancare

Mi mancheranno, dice dei ragazzi l’insegnante alla fine dell’anno; mi manchi, dice lui a lei che è già partita per tre mesi di lavoro; mi manca, dice il nipote pensando alle mani di sua nonna; mi mancano, si dice all’amico dei pomeriggi consumati a giocare nel cortile; mi mancava, dice chi torna dopo un anno intero al rifugio estivo di una villa al mare; mi manco, dice il poeta pensando a tutto ciò che non sarà mai; ci mancava, dice chi nota solo ora un vuoto colmato da una gioia collettiva. Dal latino «màncus», debole, monco, imperfetto; non essere a sufficienza, far difetto e anche venir meno, spiega il dizionario, e aggiunge: restar di fare. Generoso l’esempio finale, mancar poco: non esser lungi, esser vicino. Quasi arrivare, quasi cantare, ecco.

Islanda

Islanda, gelata insonnia del sole, ai primi forni di giugno sogno il tuo invito a stringere la mia compagna nel giorno immobile delle volpi artiche e degli angeli. Lontano dai bollori sudici del mezzogiorno, in te spoglio di presunzione, senza commento o allarme che non sia la vicinanza di un orso o l’arrivo di un temporale. La tua nudità mi chiama, e la minuscola vita umana rispetto al paesaggio, le città fantasma inghiottite dalla natura corporea, la nera scogliera di Reynisfjara, la tua infinita lezione. Orecchio teso alla voce delle balene, in bilico sulla frattura visibile della placca terrestre, rifaccio i passi dell’Omero di Palermo in Baires, che ti cantò a sinonimo di felicità. Sono già venuto alla tua custodia, non solo in questo sogno, ma nei disegni di un amico, in alcuni versi composti una notte, nella musica estranea dei Sigur Rós e di Bjork, negli spazi illibati della mia meraviglia. Islanda mancante, meta, altra metà della mela, controcanto alla mia isola madre.

Catalogo

Forse uno dei momenti più felici dell’anno, per chi può vantare la puntualità della sua ricorrenza, è la gustosa scelta dei libri da portare in montagna e farci l’amore al ritorno da una passeggiata o nelle ore costrette in casa da un temporale. Sarei felice un giorno di entrare come autore in questo intimo catalogo di chi parte in estate per i boschi, in cerca di aria più fresca e pulita. Quest’anno il mio elenco annovera il fosco Cesare Pavese (La bella estate), il silvestre Dino Buzzati (Bàrnabo delle montagne), in costante compagnia alata con Giacomo Leopardi (Canti) – per parlare degli scriventi nella nostra lingua. Loro infatti staranno in valigia accanto a Thomas Mann (La montagna incantata), Marguerite Yourcenar (Fuochi), in costante compagnia alata con Maria Zambrano (Chiari del bosco). Perché ci sono libri da leggere o da finire di leggere, e poi ci sono libri inconsumabili, le compagnie alate che ardono di presenza, i vecchi maestri diventati ormai cari amici a cui tornare, sicuri di trovare conforto e – nelle stesse pagine – sempre nuove chiavi di lettura. Nulla di nuovo, lo so. Ma che gioia: esagerata.

Viso

Ce l’avremo pure scritta tutti qualcosa sul viso. Qualcosa che ogni volta suggerisce alle persone di sorriderci o guardare oltre. La vita finora ha scritto sul mio viso un ringraziamento. L’unico modo per sdebitarmi e appagare la necessità, l’istinto umano di corrispondere al bene ricevuto è generare altra vita a mia volta. E calore da avvolgere e proteggere altri miracoli come miracolo sono stato io per chi mi ha generato. Forse, un giorno qualcuno avrà allora sul viso il suo personale ringraziamento alla vita e nella curva del sorriso una traccia del mio nome.

Figurine

Vivere è staccarsi dalla pelle degli altri e mutare in figurine di album che i compagni di una bella avventura, ma conclusa, guardano sorridendo solo quando liberi di prendersi una pausa. La matita si tempera, se vuoi usarla ancora. Così la vita: conservi i trucioli sì, e li guardi quanto ti pare, ma se accetti di vivere nel tempo, devi accettare la matita per fargli la punta di nuovo. A volte sembra pure che quei compagni abbiano usato la gomma sulla vita disegnata insieme, e alle tue spalle si spalanca l’orrido spreco di un foglio rimasto bianco. Ma no: in quei casi, è solo che non avevano una pausa per sorridere alla figurina che sei diventata per loro. Capirlo non è mettersi l’anima in pace e tirare dritto. Forse, anzi, è sentire ancor più la mancanza di una pelle, i suoi difetti unici, l’odore che ci ha lasciato addosso. A volte ci sembra di essere definiti più dalle nostre rinunce, che dalle scelte. David scrisse, mi manca chiunque; Billy cantò, mi manca tutto quello che non sarò mai. Ma siamo chiamati a uno strabismo costante, se non vogliamo dimenticare di essere irrimediabili ed entrambe le cose, scelte e rinunce. E se la felicità, più che un istante del caso in cui farsi cadere, è un’opera da realizzare nel tempo che riconosci come unico orizzonte di vita, ricorda, figurina mia: le opere richiedono fatica. A volte serve solo una pausa, e la gioia di scrivere cose banali usando matite e figurine. Magari un giorno scoprono che è questo, il più autorevole indicatore di felicità.

Porta Felice

I destinati si incontreranno nella città che ha una porta Felice davanti al mare, da cui sale un asse arabo fino ai monti che, intorno a lei di spalle, fanno della città una conca vigilata dal promontorio più bello del mondo, il Pellegrino, che ha la forma di un cane a cuccia. Gli arrivati dalle acque si chiederanno sempre se dorme e un giorno si alzerà per andarsene, la bestiola di alberi falchi e santa rocca degli appestati, o se invece aspetta come Argo senza sognare altro a occhi aperti che il loro confluire dagli antipodi della sfera vivente. Nessuna pioggia di inizio primavera darà sconforto alle attese di luce che li muoverà dalle loro solitarie cune alla cala comune di tutto porto. Una fiducia, quella dell’onda impetuosa che si lancia a riva senza tema di morire infranta o assorbita, ma certa di traboccare in marea nel petto di chi guarda l’orizzonte; una fiducia ha già vinto qualunque paura della vita che li attende passando quella porta: Felice.