La Finlandia inaugura un governo di destra e entra nella Nato che si espande a Est. Dopo la Svezia, ecco arruolato un altro paese che finora aveva gravitato tranquillamente a occidente senza bisogno di aderire all’alleanza militare americana. 1300 km di confine con la Russia. Il Messaggero, fra gli altri, sciorina con approvazione cameratesca il nuovo acquisto: “La Finlandia non ha mai abbandonato la leva obbligatoria, ha continuato a investire molto sulle sue capacità di difesa: può contare su una forza attivabile in tempo di guerra che può raggiungere le 280.000 unità. A dicembre 2021 ha acquistato 64 caccia F35 Lightning II dagli USA”. È inesorabile. Fra qualche mese sembrerà a tutti naturale entrare in guerra anche noi, andare lì a combattere, sentire di nuovo qui i caccia sorvolare i palazzi. Non si capisce cosa potrebbe evitarlo, se niente e nessuno c’è riuscito finora e da Ovest (parlo per la mia parte) arrivano sempre più spallate, si bocciano mediazioni non europee, non si considera manco per finta il papa, non si parla né di accordi col nemico né di un dopo Putin, cioè del dopoguerra. Siamo sempre più schiacciati nell’imminenza cieca del nostro ingresso fattivo, spinti dalla valanga di finti tentativi di negoziare, sabotaggi occidentali al gasdotto tedesco, omicidi eccellenti in Russia, misteriosi cambi di funzionari al governo ucraino, ecc. Nessuno ha posto limiti o ipotizza di bloccare il domino dicendo “fin qui ci siamo ma oltre questa linea di partecipazione o di condotta no”. C’è solo l’arma innescata e il dito sul grilletto. Caricano la retorica per dare patente morale a questo scempio, ricordandoci ogni giorno quant’è sanguinario chi però per decenni abbiamo rispettato, come ancora facciamo coi mercanti di schiavi in Libia. I morti avuti finora sono stati solo l’inizio. Ed è colpa del nemico, dicono. Più tardi diranno che è stata “più” colpa del nemico che nostra. E andrà bene uguale. Perché va già bene dire che è solo colpa sua, che l’ha voluto solo una parte. Che ci stiamo tutti solo difendendo. Quanto converrebbe dire solo la verità, fatta di paura e povertà incalzante, invece che continuare a dire quant’è simile al demonio il nemico. Il nemico.
guerra
Ciliegie
Ciliegie avvelenate ai soldati russi. Così, un titolo del Messaggero. Sono i dettagli che mi fanno impazzire. Al di là dell’uso che la propaganda fa di questa storia – a dimostrare che gli ucraini (categoria monolitica di individui) non vogliono i russi, contro quanto si dice invece in ambienti “putiniani”, che appartengano cioè allo stesso grande popolo, ogni ucraino avendo almeno un paio di parenti nella federazione – io penso alle ciliegie. Se la storia è vera, come solo certi dettagli inducono a credere, immagino i contadini di Melitopol che escogitano il piano. Immagino il rapporto quotidiano e la fiducia che essi hanno guadagnato, dopo settimane di occupazione, agli occhi del nemico. Finché un giorno, qualcuno pensa di avvelenarli e lo dice ai suoi. Da lì, inizia forse una discussione su quale cibo si adatti meglio come veicolo del veleno. Alcuni propongono verdure e ortaggi usati per le zuppe, ma no: ci sarebbero troppi passaggi in mezzo – la cottura, garantirsi di mettere il veleno prima di servire la pietanza, vedere quanta ne mangiano, capire quanto sia il minimo per causarne la morte – e poi chi lo dice che, ottenute le materie prime, i russi non vadano a cucinarsi la zuppa nel loro capanno? No, serve qualcosa di più immediato, qualcosa di plausibile come consumazione improvvisata, pasto del momento, magari un’offerta ai soldati direttamente dalle mani dei contadini, in segno di ristoro e acclarata accettazione di convivenza. Dobbiamo saltare il passaggio della cottura. A quel punto, qualcuno propone: usiamo la frutta. Un altro dice potremmo usare le ciliegie, hanno un sapore deciso, buono per mascherare l’eventuale gusto o retrogusto del veleno. E poi una tira l’altra, potremmo darne una normale dopo quella letale per nascondere subito l’eventuale sapore del veleno. Illuminati, i contadini annuiscono tutti. Sorridono? Non credo. Sono oltre, ormai. Fanno quello che va fatto. Uno di loro si guarda intorno, fino al tavolo di fòrmica. Fa due passi, afferra il cesto vuoto.
Fatto bene
Penso al parametro di giudizio più usato sulle serie tv: è fatta bene, è fatta male. E mi sento come un utente di Netflix che inizia a stancarsi e vuole spegnere. Mi riferisco al film sulla guerra in corso. Non si tratta più, infatti, di parlare come cittadini che pretendono una buona informazione; si tratta di parlare ormai come spettatori che pretendono una storia fatta bene. Credibile cioè. Fin qui la propaganda (segno lampante che chi deve decidere ha già deciso cosa fare, a prescindere dal nostro volere) se l’è cavata: dalle storie di nozze fra soldati ucraini intrappolati, agli U2 che suonano in una metro a rischio bombardamento. Un racconto non deve essere credibile, dev’essere l’unico. Se non ce ne sono altri, sarà creduto. Per questo si vede un film alla volta in uno schermo solo, e non due in due schermi insieme. Qui assistiamo a un solo racconto in effetti, perciò finora lo abbiamo seguito senza tanti problemi. Ditemi voi però se il film non comincia a stancare. L’altro giorno, la felpa di pile di Zelensky è stata venduta a un’asta londinese per 105 mila euro. Ieri una competizione europea di musica è stata vinta dall’Ucraina, forte dell’appello di Zelensky. I musicisti vincitori hanno dichiarato: ora torniamo a combattere. Il principio di spettacolarizzazione che uniforma i diversi piani della realtà, però, vorrebbe che anche la Russia vincesse qualcosa. Altrimenti, per quanto sia l’unico, anche questo racconto inizia a diventare poco credibile. E noi a dire che non è fatto tanto bene, che i fatti che ci propinano sono fatti e strafatti e a noi, gente perbene, non piacciono gli eccessi. Zelensky, al momento tutto quello che tocchi diventa oro: avrei un dente da sostituire. Senza impegno, quando hai tempo. Tra una guerra e uno show.
Senza pelle
Sapevamo di avere organi e vasi sanguigni, vene arterie e capillari ovunque, tessuti molli tendini e cartilagini, mucose umori e tutto il resto, ma c’era la pelle a coprire, difendeva l’interno dell’organismo e il suo esterno, cioè i nostri occhi. Sapevamo ma non eravamo consapevoli davvero di cosa c’era sotto e c’era sempre stato. Adesso invece io posso vedere il video fatto col cellulare a una donna che spazza il davanzale della finestra raccogliendo i vetri di una casa scossa da una bomba in Ucraina; vedo il raduno di donne e bambini nei sotterranei di una città spettrale battuta dalle sirene antiaereo; vedo la corsa di un carro armato che schiaccia un’auto nella strada grigia bloccando un anziano tra le lamiere. Indietro non si torna, sarebbe inutile dopo aver visto cosa c’è sotto la pelle, sarebbe inquietante riparare la coscienza con il trapianto di nuova pelle o usando una guaina artificiale. Adesso è tempo di gestire questa nuova acquisizione, di imparare come si sta nella chirurgia d’urgenza in cui hanno trasferito il mondo che si vede pulsare senza difese, esposto alla luna e al sole e alla violenza degli elementi, anzi, a quello che siamo e siamo sempre stati. Siamo ancora più vicini alle cose, alle migliori e alle peggiori. Con tutto lo sgomento che dovremo elaborare.
Un futuro da bestia
Farò come la più piccola delle bestie, tutta istinto di vita e cura dei cuccioli, ricerca del minimo, star bene con poco e di guardia alla tana, nelle notti accese al lume di fuoco, finché non saremo stretti a fuggire e cercare altro rifugio. Senza indagare la fonte del male che ci stana, senza pretese copernicane di cambiarlo, estirparlo, invece seguendo una vita al più naturale e senza rancore, spenta di giudizio, priva di sicumera, ebbra di ferite solo mie, diffidente ma acuta all’intuito del bene. La mia vita sarà breve umile grata dolente, stupita, davanti ai soli occhi dei miei tesori. La mia vita selvatica sarà il loro insegnamento, offerta di senso da ricalcare o rigettare con la stessa libertà, ma all’unica insegna di altra vita possibile. Passerò fino all’ultimo dagli altri non visto, né complice né salvatore, lontano da questa pornografia del buon esempio, tra incendi letali ai vivi animali e vegetali, guerre virali tra umani e altri umani, cimiteri sommersi a miriadi tra le zolle d’Africa e Europa e ogni altra intenzione di questa feroce primavera della paura.
Ripicca
La vita come ripicca. Anche solo questo, ripicca al male che batte come una propaganda, un veleno che ramifica insistente. Più grande il male, più forte la ripicca. Ma di pancia, proprio. Notizie di merda dal mondo, irrimediabile farsa in Italia? Nessuno sconforto: solo carezze e abbracci, progetti folli, semina del verde, ricerca dell’altro, cura dei piccoli, indulgenza e autocritica, buona volontà, fiducia. Niente di zuccherino, solo un dispetto finissimo. E più contiamo le bare, le intenzioni mortifere dei reggenti, le iniziative letali dei singoli, più assurda sembrerà la nostra ripicca e mancanza di rispetto. Lo so. Ma non è follia, è pura occasione. Sarà l’esatto opposto di girare la testa altrove. Sarà guardare dritto lo schifo e reagire d’istinto col moto contrario. Raggiungeremo livelli assurdi di lucidità, senza diventare cinici o rassegnati. Solo gente con una voglia di ripicca sempre più grande. Assurda. Come la vita che supera tutte le orecchie sorde del mondo.
Oggi non ho risposto
Alle soglie del terzo disastro mondiale, nella Terra dei muri che si alzano e dei ponti che crollano sulle autostrade, migliaia di cuori pulsanti continuano a chiamare ogni giorno da Milano a Palermo per proporre contratti vantaggiosi di qualunque servizio, chiusi nelle loro cellette di plastica, davanti a un segnatempo che scatta quando al numero composto risponde una voce, che è la voce di un loro simile, con la stessa paura della guerra e della morte. Gli squilli a vuoto del telefono, oggi, per me hanno fatto da sfondo al miraggio della luce che ancora filtra da certe fughe di nuvole come da un pavimento sconnesso, come uno specchio paziente che trattiene il diluvio aspettando di riflettere l’ultimo miracolo o la ripetizione di quello più grande. Gli uomini che si guardano sono altri uomini.
Lamento su Idlib
Chi uccide bambini non è mai stato figlio, pur essendo nato. Non ha mai avuto un figlio, pur essendo padre. Non ha mai amato, pur avendo abbracciato. Non è mai stato ricambiato, pur essendo sposato. Non è mai stato umano, pur essendo uomo o donna. Non ha mai fatto altro che un suicidio, pur avendo massacrato il mondo intero dall’alto. Sparisce malgrado continui a sorridere, a parlare; è cancellato nell’irrecuperabile abisso che fischia ai piedi della Geenna, malgrado uccida ancora e ancora e ancora spietato. E ancora. E la vita di tutti dovrebbe essere quella delle api che, usato il pungiglione, smettono di volare, di respirare, di fare male. Invece siamo delle vespe, il mondo è il nostro nido. Muoiono bambini.
Aleppo
Tanti sono morti e spariti che non si potrà mai più vivere in questa città spezzata, le bombe cadute dal cielo hanno fatto da semi per l’odio e Aleppo ora è tutta vegetazione. Il sole non trova più carne da scaldare ai lati del muro tra governativi e ribelli, nessuno potrà vivere di nuovo insieme a nessuno in questo poligono di droni. Passata la calamità innaturale, resterà solo un cretto di polvere e i vivi saranno costretti a rifare da zero interi paesi accanto a ruderi presi da erbe che non volevano crescere. Le poesie dovrebbero scriverle i morti e noi dire solo grazie, morte che annulli il tempo tra adulto e bambino, lo scarto che qui ci fa piangere di più.
Liberaci, Libia
Basta un attimo per immaginarsi tutto al contrario: una coalizione di eserciti africani che discute su quale delle violenti forze centripete occidentali appoggiare per liberarne dalla minaccia gli europei. Appoggiamo la mafia o lo stato, le spinte indipendentiste del Caucaso o il dittatore moscovita? Escludendo solo per un attimo l’ipotesi dei buoni e dei cattivi, per cui i fratelli equatoriali sarebbero mossi da un disinteressato altruismo progressista che gli faccia individuare quale delle parti europee in causa ne rispecchia meglio il modello unico di sanità sociale e fratellanza pacifica, la scelta cadrebbe senz’altro sulla parte più disposta a cedere sovranità a cose “sistemate”, quando le loro armi avranno liberato il continente bianco dal cancro che ne ostacolava il sano sviluppo – cioè quello che finalmente comprenderà il marchio colonialista africano. Allora siamo pronti, Libia, liberaci dal nostro male.