Torri

I bambini fanno le torri e noi pensiamo che il motivo sia fare ogni volta quella più alta. Il motivo invece è farle cadere. I bambini fanno le torri per farle cadere. Più alta è la torre, più clamorosa la caduta. Quanto sono devoti alla vertigine! Quanto riescono a fidarsi del superamento dei loro limiti! Cadere a terra mentre si procede in equilibrio su un muretto non li dissuade dal rifarlo; sbattere la testa sotto il tavolo non gli impedisce di chinarsi e farci un’altra casa tra le gambe; rovinarsi la gola per una questione di principio non li scoraggia dal gridare in lacrime altre volte. E parlare parlare parlare non per avere risposte ma sempre per questo: mettere alla prova il mondo e loro stessi, facendo domande, spacciando bugie. Dovrò ritrovare il gusto per la caduta, la perduta mia devozione per la vertigine, l’ardimento fantastico a scapito della testa, il rischio di mutismo per qualcosa in cui credo. Di nuovo.

Traboccare

Siamo fatti per traboccare. Tutto è più grande di noi – tutto ciò che conta, almeno. Quando non ci capacitiamo più di una letizia è bello iniziare a traboccare felicità; quando non possiamo più contenere un dolore è brutto traboccare assenza. In entrambi i casi è come risuonare e i corpi è come se li usassimo – o i corpi usassero noi – per ospitare la persistenza di un evento già dato, un gesto ormai compiuto, un suono emesso, un liquido versato. Si distende così in noi, tracimando, un presente che non scade, non finisce. Niente è lasciato alla decisione nostra: quale onda sonora far risuonare, se sarà una letizia o un dolore a farci traboccare. Sappiamo solo che tutto è più grande di noi. Va bene quando siamo piccoli e così, anzi, ci sentiamo pienamente parte del vivo mondo, senza alcun diaframma tra lui e noi, in regime di assoluta identificazione; fa male quando capiamo da grandi che non c’era alcuna promessa, un giorno, di poterlo contenere il mondo vivo, noi stessi. Non possiamo contenere interamente ciò che siamo perché è sempre più grande di noi – se conta veramente – possiamo solo esserne parte. Quello che siamo è più grande di noi, ecco. Rispetto a questo, non ci resta che una cosa: traboccare, risuonare.

La fantasia non lo sa

La fantasia non chiede permessi, non conosce la differenza tra possibile e irragionevole, così mentre io stasera uscivo per il pane, senza chiedere, lei ha sognato per me una città senza più acuti di sirene per le strade, né di ambulanze (poveri malati) o vigili del fuoco (poveri edifici), né di polizia o carabinieri (povera legalità), niente più corse avvilite di lampi blu sul taglio delle piazze, né semafori bruciati per andare ad aiutare qualcuno, a sedare un incendio, a prendere i cattivi, né tantomeno evitare ritardi alle cene dei potenti, nessun allarme sonoro che irrompe come fosse normale perché la normalità è che nessuno ha più bisogno di aiuto e di niente, basta, diciamo almeno per i prossimi due anni e mezzo, ma sì, anche tre – non lo sa, la fantasia, che è impossibile, anche se ragionevole.

Respiro

L’amore è il mio lungo respiro. Il suo ossigeno mi tiene in vita per cicli lunghissimi, da consumare anche mesi interi, tra una sola immissione e emissione di fiato. Sono due organi gemelli in moto continuo per recuperare l’aria, ridarla al cielo e ripetere lo stesso movimento. Difeso dal costato, l’amore presiede al senso della mia vita senza negare il vuoto tra la fine di un’emissione e l’inizio del respiro successivo. Se il corpo funziona così, ricordandoci che pure il bene maggiore – l’aria – deve rispettare il limite di cui siamo fatti, fermandosi ogni volta sulla soglia della nostra capienza alveolare, vuol dire che è necessaria anche la negazione di fiato, negazione di ossigeno, negazione d’amore, perché si dia un ciclo nuovo, ancora vita, ennesimo respiro, altra pienezza. Non riesco a immaginare uno che, fatto il primo respiro, corra a sostituire i polmoni dicendo l’ossigeno è finito, questi due non funzionano. Sa infatti che l’amore comprende anche il non-amore per alcuni istanti decisivi, in base al limite di ciascuno, al vigore dei polmoni, alla capacità del torace. Se il mondo è ancora in piedi, l’inatteso ci riempie l’amore d’aria nuova ma sono sempre i nostri polmoni, gli stessi fin dalla nascita. Come oggi, dopo molto tempo, abbassata per un attimo la mascherina, l’inverno mi ha messo nelle narici l’epifania di cos’era sempre stato camminare col volto aperto agli elementi. Ridandomi la voglia di un altro lungo respiro.

Guerra

Per chi ha più di 300 amici, facebook è una guerra. Non ci credete, non ve ne accorgete ma è una guerra. Su chi è più *qualcosa, e su come essere meglio *qualcuno. Guerra all’ultimo presente: nessuna possibilità di vittoria. Zuckerberg però non vi ha mica costruito una casa ciascuno in cui fare abitare i vostri nipoti e lasciare tracce di voi nei cassetti dello studio con la finestra da cui in estate entra anche la scia del gelsomino. Mark se l’è cavata certo, ma con la sua invenzione non ha fatto la casa a nessuno. A nessuno, dico, con le sue mani. E questa cosa delle mani è fondamentale. A nessuno, con le sue mani ha fatto una casa davanti alla quale puoi farti fare una foto, stamparla e aspettare che ingiallisca. Eppure è ritenuto il padrone di casa nell’acquario blu. Casa senza mattoni, ma fatta di tempo: che ci metti tu. Una casa fatta da lui col tuo tempo, di cui non sei più padrone. Prima, lo abitavi in qualità di capomastro. Ora non più, per il solo vezzo di entrarci ogni giorno. Così si perde una guerra e si muore capendo tardi una grande verità: se si inizia a definire reale una cosa, significa che ce l’hanno rubata.