La terza parola

Comunicazione di servizio al me stesso del futuro, come un promemoria: oggi, giorno in cui è stato assegnato il Nobel per la Letteratura, mio figlio ha detto la sua terza parola completa: penna! Visti i festeggiamenti, da circa mezz’ora gira per casa con una penna in mano dicendo: penna! La prima parola è stata banana; la seconda camion; la terza penna. Prima cibarsi, poi guadagnare, poi scrivere. Giusto.

Farfalle

Le foto nel cassetto, quelle con la data scritta dietro, magari un commento – i magnifici! – vecchie di dieci venti trent’anni restano lì chiuse, nessuno le prende mai ma una volta, la domenica, solo una volta in tutta la giornata – e chissà quando: ogni domenica a un’ora diversa – vibrano come farfalle nelle scatole e nei raccoglitori o libere tra fili arricciati e ritagli di carta regalo, farfalle, chiedono di uscire e posarsi sulla mano ma lo fanno in silenzio, nessuno può sentirle, la richiesta si può solo decifrare da piccoli segnali: l’arcobaleno teso dai vetri del lampadario fino al divano; l’ombra della tenda che sventola sulla porta bianca come un sipario; l’odore di un mandarino sbucciato fra il dolce e il caffè; le note di pianoforte che dal palazzo antistante volano fin dentro casa; l’acciottolio delle stoviglie che qualcuno sta pulendo in cucina e altre epifanie disponibili come variazioni sul tema. Sono mille i linguaggi usati dalle foto nel cassetto che chiedono di essere riprese in mano ogni tanto, la domenica, nel corridoio spalancato da una vita intera e per quella sua interezza – già solo per quella, nel bene e nel male – vita meravigliosa.

Maia

Ieri si parlava di viaggi, così abbiamo studiato il paramondo per capire dove andare e partire subito, stanchi di rimastare qui come su obbligo di tradizione, s’è sempre fatto e si fa così. Trovata l’isola più distante da tutte le terre emerse, nel Pacifico, abbiamo messo allora la nostra canzone applausando a ritmo di gioia. E questa tosa era bella come una bimba di nome Maia. Io avevo il costume, tu eri tutta duna e ci tuffavamo.

Rimastare

Il sole bussa alla portafinestra e fa entrare in cucina le api che volano a cercarmi fiori intorno alla testa, il miele d’autunno è finito ma loro non sono venute per me. Dicono, siamo scappate dai calabroni sul glicine, appena lasciata la casa di cera per trasformare l’oro in primavera (ieri mi hai detto la vita è promessa di vena in miniera). Presto anche noi voleremo sull’onda colore del vino, da questa terra all’altra, isolata da acque metalliche e sale che brucia la faccia alle persone. Sentiremo le loro voci di conchiglia dura alle maree più violente e io avrò un occhio migliore, più forte di adesso, capace di trattenere la pioggia se, partendo di nuovo, una bimba ci parlerà come ha fatto col nonno una sera, chiedendoci ancora un po’ di rimastare.

Grazie per l’amicizia

Nell’antichità tribale poteva piovere a seguito di una richiesta danzante, ed era cosa buona per estinguere la sete del terreno. Poi la pioggia si è fatta cosa negativa da associare al governo ladro, nella Firenze che tassava il sale pesandolo sempre nei giorni in cui era gravato d’acqua piovana. Oggi invece è il fisiologico risultato di uno sfogo del cielo che, periodicamente, non riesce più a trattenere nelle nuvole tutte le volte che qualcuno scrive sulla bacheca di un nuovo contatto “grazie per l’amicizia”. Rendetevene conto, smettetela e non pioverà più, mai più la domenica, lo giuro sui miei jeans.

Questo bellissimo pensiero

Di quant’avi chi stai ai casi popolari mi vedo osservato da tutte le persone che affacciano dei balconi, e io veramente non ci do confidenze. Io veramente voglio bene a una che affaccia, che sta di rimpetto la mia palazzina. Pecciò, e cerco di fidanzarmi pecché sto solo, pecché sennò eh, mi disturbano sempre. Io intanto continuo, diciamo noi, a guardarle a tutte queste belle signorine che affacciano, ma però sono scomparsi tutti. Non ci sono più. Non affacciano più. Pecciò, quello che dico io, il mio sogno, forse svanirà, si allontanerà, questo bellissimo pensiero di avere a questa bellissima donna che sono veramente innamorato.

Francesco Tirone, Lo zio di Brooklyn (Ciprì e Maresco, 1995) – da qui

Canto

Come a noi piace il canto degli uccelli che fanno casa sui rami alti delle ville, forse a loro, a questi esserini del cielo, piace sentire noi quando parliamo. E solo per un banale equivoco l’uomo canta pensando di farsi prossimo al cielo. Perché quando ascoltiamo il canto degli alati è solo in realtà il loro linguaggio corrente, quello che usano per dirsi le cose, senza sapere che a noi si dà in forma temperata. Così è forse il nostro suono specifico, il nostro semplice dire, come di due amici che parlano scavando il tramonto, che più affascina i vivi sugli alberi; e non il canto – per quanto “naturale” – che gli giunge come nostra imitazione storpia del loro suono azzurro. Questa ipotesi, che nessuna scienza potrà mai scartare del tutto con prove o interviste ai diretti interessati, per dire l’inconsumabile sorpresa della famiglia di cui siamo parte, e di noi stessi.