«Non cambierà niente». Ci sono bugie dolcissime. Ma la verità è che siamo nati per rinascere tante volte. Passati al resto del tempo che ci stacca dall’infanzia, quante volte si può nascere in una sola vita? Un istinto, io credo, guida chi lo sa ascoltare tra le correnti del dopo, le sirene del resto che ci aspetta. Il resto in cui siamo già, se condivido questa lunga età adulta con voi. E si deve cercare una grandezza morale nella fedeltà a sé stessi, non come forma di tenacia inflessibile, ma come fiducia morbida di non perdersi al successivo cambiamento. Rimane immutato l’istinto e una memoria delle cose apprese nel tempo che era la nostra alba. Fiducia e fedeltà fanno la grandezza di un’anima che abbraccia la resa davanti ai misteri più grandi. Tutto diventa stagione in un ciclo che però non si ripete e vede in noi compiersi un anno senza fine, bellissimo per forza. Senza tema di cadere nella febbre della tenerezza finché respiriamo, né paura di rimpiangere gli antenati che andavano in giro con le mani macchiate di inchiostro. Depositari delle loro mutazioni sulla pagina, generosi ospiti della muta che lasciavano agli altri per andare incontro al dopo, un’altra nascita. Non cambierà niente. Abbracciamo i punti di non ritorno per non dimenticarli mai, scrivendoli sul nostro volto nel buio infastidito dai nuovi inizi. Nuovi inizi per sempre. Per tutte le vite.
luce
Per il futuro
[…] Per il futuro c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. […] Noretta dolcissima, sono nelle mani di Dio e tue. Prega per me, ricordami soavemente. Carezza i piccoli dolcissimi, tutti. Che Iddio vi aiuti tutti. Un bacio di amore a tutti. Aldo.
Levare
Con le mani ho speso
una vita
a fare esistere
le cose dagli altri –
– non sei poeta
se non fai nascere
un poeta.
Tramite
Voglio che in futuro leggendo la mia biografia, fino alla fine, un ragazzo cerchi la musica che avranno messo al mio funerale, la senta e se ne innamori pensando alla mia opera come a una sua esperienza. Voglio che in futuro preparando la valigia per andare in montagna, in cerca di residua frescura, una ragazza d’estate porti con sé un mio libro tra quelli che intenderà leggere nel suo alto isolamento. Voglio che in futuro al balcone affacciato di sera, nel fiato corto di tanti pensieri, mio figlio alzi gli occhi e mi senta sospeso a pochi centimetri dalla fronte nel conforto ossigeno dell’amore presente. Voglio che in futuro studiando la mia opera, tra pubblicazioni, lettere inedite e diari privati, un ricercatore ne viva la cifra sempre sfuggente davvero non sapendo come riassumerla in una sola definizione. Voglio che in futuro un altro o un’altra insomma – il che è già dire: futuro; altri – per me come tramite finiscano senza volerlo in un chiaro di bosco dove io non sono mai stato, così come io l’ho trovato per tramite di un altro e un’altra, dove essi non erano mai stati.
In realtà ero bella
Elsa ogni tanto ci portava in Paradiso. E a chi chiedeva: «A me mi porti?» «No», lei subito, decisa, «Non c’entri niente tu. Tu non ci puoi venire in Paradiso». «E allora chi ci porti?» insistevano i delusi, «Patrizia ce la porti?» E Elsa: «Sí, Patrizia può venire in Paradiso».
Ah, come mi piaceva questo andare facile, sicuro, senza dover competere! Però, per non offendere, facevo la distratta coi respinti. Anche se poi, tra discussione e dubbi, un po’ alla volta venivano alla fine quasi tutti assunti. Ma io – a parte i gatti, che stavano già lí ad aspettarci – ero la prima, sempre, la prescelta. Non mi chiedevo il motivo di questa preferenza: da un lato mi pareva naturale, dall’altro pensavo fosse meglio non mettersi a indagare. Del resto, io a quei a quei tempi venivo ammessa ovunque: ai pranzi, al cinema, a teatro, andavo sempre bene con chiunque. Neanche di questo mi chiedevo la ragione, forse per questo avevo l’ammissione.
In quanto al Paradiso, a figurarmelo, io non vedevo altro che il prato dove stavo, come un vassoio che ci portasse in alto, un po’ inclinati e senza piú le sedie, per cui ci si arrangiava poco comodamente sopra l’erba. Un’altra differenza era con gli alberi, molto piccoli, qui, da miniatura, e con le chiome composte e tondeggianti. E poi c’erano i gatti, lenti, sul fondale, che, finalmente belve, parevano piú grandi del normale.
Non c’era altro, neanche mezza schiera di beati. Ce ne stavamo lí, tranquilli, a chiacchierare, le voci liete, senza mai un’asprezza – persino Elsa teneva basso il tono – le facce buone buone, intese a dimostrarsi ospiti all’altezza del posto e del regalo. E anch’io pallidamente simulavo, pur annoiandomi degli altri e di me stessa, mentre qualcosa mi diceva che essere prediletti può bastare in sé, e che a volerne raccogliere i frutti si può cadere in una scialba sproporzione. Che c’entra, per Elsa era diverso, aveva un’altra idea del Paradiso, lei ci vedeva innegabili vantaggi: andare senza borsa, per esempio, o alla sera non lavarsi i denti.
Ma io non ero ancora cosí stanca e preferivo i pranzi concitati, benché tra me un po’ mi vergognassi di non avere spirito abbastanza per trasognarmi nei piaceri alti. Avrei piú tardi rimediato, quando crescendomi la noia mia e degli altri, sarei ricorsa al piú sfrenato immaginare per abolire, non dico la realtà ma ogni traccia di verosimiglianza. E adesso mi stupisco quando penso a tutti quegli ingenui andirivieni tra un prato e l’altro dei nostri Paradisi tra i quali io sceglievo il più terreno per fingermi l’amata, la prescelta, chissà per quale grazia immeritata, senza sapere che in realtà ero bella.
Patrizia Cavalli su Elsa Morante (da un’intervista Rai)
(Qui un’altra chiacchiera smagliante)
Aspetto un bacio
Sul caro monte degli ulivi, dopo la cena, mi allontano dagli altri a un tiro di sasso e l’angelo mi viene di conforto. Nella lotta il sudore, in ginocchio, somiglia a gocce di sangue che cadono per terra. Mi rialzo, torno dagli altri e li trovo che dormono tutti per la tristezza. Tra stanotte e domattina è il potere delle tenebre, vestiranno di porpora le mie parole e non mi crederanno. Eppure, anche nel cammino feroce da qui al Cranio, i miei gesti daranno luce alle vite di alcuni. Malco da stasera si chiederà come ho fatto a risanargli l’orecchio mozzato dalla spada di Pietro; Pietro scaverà col pianto amaro la parte più umana di sé; Erode smetterà la sua lunga inimicizia con Pilato; Pilato troverà in me un riflesso alle sue domande sulla verità; Barabba non pagherà per la sua rivolta contro il potere e vivrà pensando all’omicidio commesso; Simone racconterà al figlio e in futuro ai nipoti di aver retto, tornando dai campi, la croce ingiusta di un profeta; uno dei miei compagni appesi al legno sarà il mio primo fratello in paradiso. Come vena di miniera il mio oro brillerà nello scuro delle carni lacere, fino all’ultimo fiato davanti agli occhi di mia madre. Ma ancora è presto, e sapere tutto questo in anticipo, anzi, rende la pena un macigno molto più grave. Ancora aspetto insieme ai grilli, ancora per poco. Aspetto un bacio.
Reggere
A volte è il soffitto che tiene le colonne. Non so chi mette questa frase nel mio orecchio. Sto ammirando il soffitto del portico di santa Maria in Trastevere. Mi giro verso un noto giornalista palermitano, la sua smorfia di impotenza, lontano, a destra, come a dire non è colpa mia, è il mio lavoro. Ha appena fatto la cronaca di un abbandono: mio suocero, patologo, ha lasciato un caso assegnatogli dal tribunale. Eccolo, sospeso all’altezza della mia fronte, gambe incrociate, sembra seduto sull’aria. Indossa una camicia da notte bianca a scacchi blu scuri e mi guarda dall’alto in basso. Gli dispiace molto per com’è andata, che abbia mollato. Non l’ho mai visto così esposto, sincero, indifeso. Lo tranquillizzo: non potevi fare altrimenti. È come se ti avessero detto noi non ci fidiamo, gli dico, e tu avessi risposto allora arrivederci, di che stiamo parlando? Domenico posa su di me l’espressione più ricca nuda e diretta che io abbia mai ricevuto, adulto da un altro adulto. Dritto negli occhi. Il suo volto è gratitudine e consolazione insieme. Mi ringrazia perché l’ho sollevato da un peso; mi conforta perché sa che manca tanto a tutti. Quello sguardo mi riempie di calore, mi nutre, mi dà una serenità che basta a farmelo sentire presente per tutto ciò che conta, grande aiuto per me e sostegno per tutti noi. Si china lentamente per abbracciarmi la testa, non smette mai di chinarsi fino alla fine del sogno, mentre sento di nuovo la frase. A volte è il soffitto che tiene le colonne. Non è lui a dirla: non ha mai aperto bocca. Forse è la sua faccia, penso. Subito dopo mi sveglio e il giorno intero sa di questo.
Il pirata
Per esempio è bello il momento del giorno, dopo cena, in cui lei è a letto, io sistemo la cucina e Arturo in pigiama fa la spola tra noi correndo pieno di sorrisi, per la certezza piratesca di possedere il mondo con l’audacia di un passaggio nel corridoio semibuio, felice di sottrarsi ai limiti del tempo concesso prima di dormire. Il pirata rallenta sull’uscio della cucina (l’angelo lo salva dallo spigolo del tavolo) si ferma davanti a me, alza la fronte quasi al tetto per guardarmi e io ho davanti una stella, tra il lavello e il cassetto delle posate. Che ci fai ancora in piedi? dico raccogliendo le briciole che restano a fine giornata. L’amore fa un ghigno di ripicca ulteriore (finalmente gli sta uscendo anche l’ultimo incisivo), volta i piedini con manovra incerta e segue il fulmine diretto all’altro capo della costellazione. In camera prende il secondo rimprovero, lei lo fa salire sulle coperte dicendo Guarda che anche papà sta venendo a letto. E del resto che c’è fuori, la notte – financo tra i diamanti del cielo nero – non ho più memoria.
Sul metro dei quanti
Piccolo come diventa, può stare ovunque, nascondersi e non farsi trovare, passare la materia e certo uscire, quando e come vuole, da ogni poro. Invece resta dentro. Ridotto e stretto come niente al mondo, il cuore, la prima volta che porti un figlio al nido. È fisica, elemento più piccolo sul metro dei quanti non esiste. E le traiettorie! Impazzite sghembe nervose, accelerate al millisecondo, battono sulle ossa e sulle pareti di carne. Torni a casa, valuti il da fare, parli col portiere, fai bene le scale, infili la toppa e cedi – un altro vuoto: stavolta è nella mente. Si è staccato dalla mente un ramo intero. Nato da poco ma cresciuto subito forte, divaricato in mille legni verdi sottili per l’esposizione fortunatissima. Così fitta ne era la trama da fare ombra a terra e fresco per l’erba dove giocare. Adesso quel ramo vive ma altrove; altrove ma per poco; e tanto basta al laser del sole per incenerire le farfalle nate lì sotto. Così è l’ennesima novità, l’innumero esilio dal centro. E ogni volta non sai dove ti hanno posato, non sai da dove scrivi, da dove guardi, da dove pensi, tanto la vita ha rapito la vita a te stesso con altra vita mai ferma e lucente. E si scrive poco, sempre da una periferia, mai più dal centro; si guarda mai più dagli occhi; si ascolta mai più dalle orecchie solo nostre – sempre avuti, sempre avute, prima che l’amorino ti riducesse il cuore sul metro dei: “Quanti siete ora nella stessa vita davvero?”
L’aquilone
C’è un bambino, di un anno e poco più, a mollo in piscinetta, ride sguazza gioca schiaffa e risponde occhi socchiusi per la luce, le mani ormai di carta, la pelle una muta d’acqua, spiccando urletti di gioia su infinite variazioni di una sillaba, “ca”, sempre la stessa. Così guardando ogni tanto di lato, dal tavolo di lavoro in terrazzo, si sente meno caldo, meno attrito, meno peso e gravità arrivando su, alla fetta di fresco con la vista alta sul mondo – è un bel tappeto che non parla, vibra solo e sai di cosa: felici bimbi a mollo per tre ore, colla palla e il leone, mentre tu fai l’aquilone.