Borotalco

Ieri sera ho rivisto Borotalco (ma vale per ogni altro “documento” fino agli anni Duemila) e ho provato un’invidia mista a impressione dolorosa nel misurare la libertà in cui abbiamo vissuto quando la gente usciva di casa e, davvero, non c’era più, stava solo dove stava fisicamente; solo con chi stava fisicamente. Rispettando il tempo necessario all’altro per coprire le distanze. I legacci della reperibilità capillare hanno fatto ormai crollare tutto un sistema di “fiducia dovuta” nei confronti dell’altro, sostituendola con un sistema di “controllo legittimo” e immediato per cui, oggi, poter sapere ci induce a voler sapere (così, le dinamiche del desiderio in molti altri campi: se ormai posso, allora io voglio). Rispetto al precedente bisogno di tenerci legati ritrovando l’altro in un sistema di fiducia dovuta, da passare poi al vaglio fisico, oggi è la tecnologia che ci tiene potenzialmente legati, liberandoci dal bisogno di un successivo vaglio fisico. La vertigine provocata dalla sua capillarità è tale, anzi, e a essa abbiamo così associato il rilascio di endorfine, che siamo noi – oltre quella prima mutazione, in cui ancora eravamo solo inquisiti – a voler dire ormai agli altri, pure sconosciuti, dove siamo, che facciamo, senza più aspettare che ce lo chiedano loro alla nostra prima scomparsa. Così, certo, è ancora possibile che due sognatori fuggano insieme da una quotidianità opprimente ma ecco che, davanti al mare di Castel Porziano, tra una domanda sul segno zodiacale di Dio e le prime carezze clandestine, verrà voglia di fotografare il paesaggio o sé stessi, non per diffonderli necessariamente subito agli altri, ma già solo a garanzia di un potenziale futuro controllo di sé su sé stessi. Controllo che non faremo mai: nessuno rivede le mille foto inutili che scattiamo. Viviamo l’istinto di controllo sul presente, senza poi esercitarlo mai perché a nulla serve, se non come garanzia invece di una presa stessa sul presente, attenzione esclusiva che non riusciamo più a esercitare. Garanzia di starlo vivendo davvero quel momento, come per l’inconfessabile dubbio di esserci, presenti qui e ora, con la nostra sola cifra di carne e fiato attestabile, in passato, e già ben soddisfatta ad esempio dall’improvviso canto stonato di un brano di Dalla in coppia a squarciagola contro i pesci sott’acqua che manco si vedono. Ma ci fidiamo: nuotano lì sotto, che è tanto profondo.

Grammatica dei talenti

La vita di chi crede in qualcosa, la vita di chi ha affrontato la propria libertà e paga consapevolmente il prezzo delle sue scelte, suscita sempre negli altri una gamma di sensazioni che oscillano fra due estremi: pena e ammirazione. Da Gesù a Freddie Mercury, da Galileo a Paolo Borsellino, da me a mio cugino. Pena, per la solitudine rispetto alle pur valide alternative a cui la persona libera ha rinunciato; ammirazione, per la compagnia di luce che vive ai margini dell’unico sentiero scelto. Lucio Dalla una volta disse che il musicista è l’incrocio perfetto tra un angelo e un rottame. Siamo da quelle parti, ammirazione e pena. Spesso mi è capitato di pensare a volte con grande ammirazione, altre volte con un pizzico di pena nel cuore, a uno stesso artista o a un conoscente che ha fatto della sua vita un’opera d’arte. Ammirazione, per l’immensa dignità che riveste le persone libere; pena, per il prezzo che costa la gestione di quella libertà in maniera totale. Se Gianni Rodari scrisse un’intera grammatica della fantasia a partire da un binomio fantastico, è possibile dunque fissare da questo binomio realistico – pena / ammirazione altrui – la misura di una vita adulta, feconda, che chiameremo grammatica dei talenti: promemoria sulla necessità di ospitare dentro di noi sia l’angelo che il rottame. Perché serve talento per vivere davvero, il coraggio di restare a mani vuote confidando nel ritorno moltiplicato delle poche monete iniziali.

Mi hai insegnato tutto

Caro Roberto,

sono le 4 di notte di giovedì 30 e ho finito il disco. Avrei voluto parlarti questa sera ma sono solo nella casa di Roma e non ho il tuo numero a Teramo. Avrei voluto parlarti per dirti un sacco di cose, sul tuo disco, sul lavoro che hai fatto. Il disco è tuo. Mi hai insegnato tutto: ad aver rispetto e paura nello stesso tempo e amore per il mio lavoro; rispetto perché le responsabilità sono tante, l’impegno è totale le possibilità infinite, paura perché ho terminato da quattro ore e mi manca già. Mi sento un vuoto incredibile e una grande sensazione di insoddisfazione futura (vorrei ricominciare domani stesso) amore perché non venderei questo disco neanche per la vita di mia madre (forse ho esagerato) perché lo proteggerò anche a costo della mia vita, perché mi sento di cantarlo e suonarlo davanti ai re (se ce ne sono ancora) e davanti agli straccioni, ai sindaci ai matti e ai santi, perché fra debolezze congenite fra piccoli calcoli e squallide operazioni è timidamente nata in me una coscienza al di là di ogni sospetto, una coscienza che cancella ogni ritorno alla dolce tranquillizzante mediocrità che in modo grottesco e cialtronesco aveva, fino a poco tempo fa, bloccato ogni operazione creativa. Ho fatto, suonato pensato e cantato più musica in questi quindici giorni che in tutta la mia vita. Tu dovevi esserci. Ogni nota ogni accordo ogni inflessione della voce la verificavo fra me e me ma soprattutto tenendo presente quello che tu avresti voluto preferito o scelto e cantato. Il buffo è che avevo la sensazione che avresti cantato benissimo anche tu, ti saresti trovato al millesimo di battuta in modo perfetto e questo mi consolava e mi divertiva. Pensa che in questi quindici giorni non ho passato un solo momento di tristezza o di rassegnazione, mi sono sempre divertito ho riso con tutti e mi sono anche sentito molto buono. Ora è nato il grosso problema del sonno: non riesco più a dormire, mi sembra molto stupido e la notte cretino. Non vedevo il momento che arrivasse la mattina per cominciare a lavorare a cantare a tradurti e a tradurre in suoni sentimenti grida e anche battiti ritmici di cuore le tue idee. Credo che sia meglio parlarti un poco del disco: prima di tutto debbo dirti che i ragazzi del complesso sono stati formidabili instancabili e soprattutto pieni di convinzione direi quasi ideologica, praticamente quasi un miracolo!! Dopo i primi due giorni tutto sommato vissuti da noi tra l’indifferenza e anche lo scherno degli addetti ai lavori vi è stato un crescendo di interesse che ha coinvolto un poco tutta la gente della RCA (e anche gente che veniva da fuori) ed è stato un pellegrinaggio continuo dai fonici ai tecnici ai capilinea ai dirigenti gente che stava nel nostro studio sospendendo i propri lavori per sentire le canzoni. Era anche molto interessante tanto è vero che ho dovuto levare il cartello di “vietato l’ingresso” per non fare lo stupido e per non fare la figura del fesso. Alle dieci di mercoledì è venuto anche Melis con un altro pagliaccio che si chiama Fanti (uno che è stato nella legione straniera) e fra una serie di battute ironiche e di provocazioni nei miei confronti (vedi il titolo da lui proposto) ha dovuto ammettere la validità della cosa, e ti dirò che lo ha fatto anche con visibile piacere. Ora è chiaro che il disco non è tutto perfetto, la perfezione è ancora l’isola più lontana da raggiungere per me, ma con tutta l’umiltà che mi sento e con quella che purtroppo non ho penso che potrà piacere e anche molto. Sono le 5 e proverò di dormire. Spero che tu sappia perché ti ho scritto e spero che la mia follia da ex grafomane sgrammaticato non ti abbia stancato e infastidito. Vorrei abbracciarti e stare con te sulla tua poltrona (che ci sarà anche a Teramo) e bere il caffè di Elena (che saluto tanto) per tutta la vita. Al prossimo lavoro.

Lucio

Mambo

Guarda Roma, come succede in fondo al Celio, ho scritto ieri, commosso da una foto al carnato del cielo che tramontava vicino casa. Ma il cuore, a tratti malinconici, si secca e diventa una scopa. Faccio da punto alle virgole e argine ai fiumi di molti, per scelta voluta e per la parte che, in te morendo, mi è nata subito dentro. In quello scatto però avevo in mezzo una mano che a tratti mi canterà sempre una domanda: perché si seccano le fonti? Forse, perché nella corsa a dare comunicare e trasfondere soltanto è facile smettere di imparare e presto ci si ritrova con le ginocchia piegate a terra. Non smettere mai di imparare, scrivo allora su un foglio. O forse è solo che, due anni fa, ho letto stamattina un alto discorso davanti al tuo legno incoronato e questi sono i giorni in cui riesco meno a ballare. Questi sono i giorni in cui il principe nostro è più bravo a tentare. Giorni che al deserto serve di più un fiato e il ritorno di un cuore bandito. E svanire adagio nel sonno meridiano come Gabriel, ascoltando l’ultima neve cadere lieve e lieve cadere sull’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti.

In ogni momento

Guarda cosa ti combino è il buon riassunto di una maniera che sento mia. Maniera verso se stessi e gli altri. Maniera ulisside, se pensiamo all’idea di sorpresa: quella vissuta grazie alla propria curiosità, e quella generata grazie al proprio genio. Guarda cosa ti combino è indice di corrente ancora in transito fra la veglia e l’imprevisto. E può, una volta tanto, fare da lasciapassare a questa fiducia immotivata: sommerga ogni pudore di non sembrare umile e ogni sguardo ricevuto come un traditore, al modo che l’infaticabile battigia ricopre a notte le conchiglie rotonde. Cosa me lo fa dire? Abitassi davanti al mare, anche tu potresti favolare di tuffarti e diventare pesce in ogni momento – e come pesce, difficile da bloccare.