Il rasoio del barbiere sulla nuca non dà più il brivido alla schiena, la pista cifrata della settimana enigmistica resta intatta nel disinteresse al miracolo della linea unica. Il cuscino ha l’odore di mio padre se accosto il braccio alla fronte prima di dormire, mentre il compleanno di un amico mi fa pensare alla prima volta che lo festeggiammo da lui e mi rivedo che potrei essere mio figlio. Ho già riletto illuminazioni scritte anni fa con l’intento preciso di “usarle” quando avrei dimenticato quella grazia. Così dico sono grande davvero, e non per ciò che lo fa dire agli altri se spegni le candeline, inizi la scuola o ti nasce un fratello. Ho passato giorni che scavano tracce definitive e altri ne verranno, quando la mia terra (spero) sarà già più molle. Ieri mi è pure venuta in mente l’espressione al di là del bene e del male e l’ho sentita mia: ho passato il recinto dove tutto sta insieme e che da ragazzo, per la sua fatica evidente ma ancora misteriosa, mi ispirava un rispetto enorme, ai limiti della compassione, e insieme una forte curiosità per i più grandi. La certezza di essere fragili e l’istinto di proteggere gli amati; scegliere, oltre la rassicurante distinzione tra bene e male; amare, oltre il dogma sordo della non contraddizione. Da grandi sta tutto insieme. Così ogni volta mi ritrovo pure bambino, nell’attesa di crescita su una cosa che ho voglia di fare, che sia un tuffo a mare o un progetto da avviare. Qualcosa per cui valga la pena, qualcosa di bello, grande.
malinconia
Da piccolo
Tempo fa dissi a qualcuno come eravamo piccoli ieri. Era il primo gennaio, era scattato il numero nuovo, sulla carta c’era un anno da aggiungere e io posavo sul giorno prima lo stesso sguardo di Pinocchio davanti al burattino che era. Mi vedevo appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, le braccia ciondoloni e le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stavo ritto. Oggi, la stessa malinconia. Sarà che dopo la finta domenica di ieri, primo maggio, la ripresa lavorativa stacca i motori più a fondo sul tempo in declivio. La sensazione resta comunque, nitida: da piccolo ero un cane randagio che annusava l’aria curiosando in giro tra i gomiti degli altri vivi in piazza San Giovanni, giocando a fare le spugne sotto la pioggia in attesa del prossimo artista. Ed era ieri. Appena ieri, quando si è piccoli e tutti sono sagome di fanciulle che giocano col cerchio sulla fuga di un cielo verde. Il pensiero di essere già oggi altrettanto piccolo rispetto a domani non dà riparo: l’ombra sotto i portici che ho davanti è solo olio indurito.
Mambo
Guarda Roma, come succede in fondo al Celio, ho scritto ieri, commosso da una foto al carnato del cielo che tramontava vicino casa. Ma il cuore, a tratti malinconici, si secca e diventa una scopa. Faccio da punto alle virgole e argine ai fiumi di molti, per scelta voluta e per la parte che, in te morendo, mi è nata subito dentro. In quello scatto però avevo in mezzo una mano che a tratti mi canterà sempre una domanda: perché si seccano le fonti? Forse, perché nella corsa a dare comunicare e trasfondere soltanto è facile smettere di imparare e presto ci si ritrova con le ginocchia piegate a terra. Non smettere mai di imparare, scrivo allora su un foglio. O forse è solo che, due anni fa, ho letto stamattina un alto discorso davanti al tuo legno incoronato e questi sono i giorni in cui riesco meno a ballare. Questi sono i giorni in cui il principe nostro è più bravo a tentare. Giorni che al deserto serve di più un fiato e il ritorno di un cuore bandito. E svanire adagio nel sonno meridiano come Gabriel, ascoltando l’ultima neve cadere lieve e lieve cadere sull’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti.
Fine stagione
La capanna dei due cuori non c’è più. Uno è il mio, l’altro è blu del mare che già hanno smontato, aprendo la sabbia a un disordine temporale: il quindici settembre è sì finita la stagione balneare ma non ancora l’estate, che invece muore domani aprendo la via ai brividi autunnali. Questo lieve smottamento di una settimana sul cambio di nome al paesaggio lascia sempre un varco aperto per l’intero autunno, sulla dorsale marina che a sud risalgono i corsari nelle giornate ancora di sole, per rubare anche in ottobre o a novembre un tuffo a Mondello che riunisca i due cuori, ma breve e senza il tempo di costruirci di nuovo la capanna. Solo restare avvolti in un telo che apparecchia il ricordo della stagione finita e il sogno del mare prossimo in cui ridestarmi fra un anno. Con tutta la vita in mezzo e inesplorata ancora da attraversare.
Figurine
Vivere è staccarsi dalla pelle degli altri e mutare in figurine di album che i compagni di una bella avventura, ma conclusa, guardano sorridendo solo quando liberi di prendersi una pausa. La matita si tempera, se vuoi usarla ancora. Così la vita: conservi i trucioli sì, e li guardi quanto ti pare, ma se accetti di vivere nel tempo, devi accettare la matita per fargli la punta di nuovo. A volte sembra pure che quei compagni abbiano usato la gomma sulla vita disegnata insieme, e alle tue spalle si spalanca l’orrido spreco di un foglio rimasto bianco. Ma no: in quei casi, è solo che non avevano una pausa per sorridere alla figurina che sei diventata per loro. Capirlo non è mettersi l’anima in pace e tirare dritto. Forse, anzi, è sentire ancor più la mancanza di una pelle, i suoi difetti unici, l’odore che ci ha lasciato addosso. A volte ci sembra di essere definiti più dalle nostre rinunce, che dalle scelte. David scrisse, mi manca chiunque; Billy cantò, mi manca tutto quello che non sarò mai. Ma siamo chiamati a uno strabismo costante, se non vogliamo dimenticare di essere irrimediabili ed entrambe le cose, scelte e rinunce. E se la felicità, più che un istante del caso in cui farsi cadere, è un’opera da realizzare nel tempo che riconosci come unico orizzonte di vita, ricorda, figurina mia: le opere richiedono fatica. A volte serve solo una pausa, e la gioia di scrivere cose banali usando matite e figurine. Magari un giorno scoprono che è questo, il più autorevole indicatore di felicità.
Tribù
Il mondo è così vario che in Africa, Amazzonia o Nuova Guinea esiste una tribù inversa alla nostra: si sveglia al tramonto e inizia la giornata recitando una preghiera a Venere, la prima stella che si accende al crepuscolo come un neo del cielo accanto alla luna. Neanche sapendo di usare una definizione che noi applichiamo a loro, detti silvestri già da tempo chiamano terzo mondo questo occidente ipertecnologico – perché ormai di più scarti alieno dalla cifra che ci lega alle altre specie di Natura – e da molti decenni si preparano timorosi alla colossale migrazione nelle loro terre degli ultimi umani rimasti qui. Nella notte si chiedono perché mai ancora non s’è visto camminare sulla battigia nessuno straniero: cosa aspettano, dicono, e stupiti rivanno a letto con la nuova alba. Nel loro calendario, il trentuno agosto inizia la stagione di riposo annuale dal lavoro.