C’è stato molto caldo ieri e oggi nel grande fuori. Ho dato acqua al nostro verde finché l’imbrunire non ha fuso le piante col bordo delle aiuole in un tutto di immobile incanto. Nessun vivo ricorda chi fu a comprare i tubi sparsi ai margini della scalinata o nei vari giardini: potrebbero stare qui dall’invenzione del cielo. Intanto il sole li ha scoloriti prostrati e spaccati, e nel rito lento mi sono schizzato fin sotto i piedi. Prima di rientrare in casa sono tornato bambino, ho sentito mie le urla di nonna che rimprovera nonno di portare il fango dentro. Rivedo le unghie all’insù dei suoi piedi e il laccio che gli tiene le braghe arrese alle tarme degli armadi. In questi giorni ho fatto anche altro in linea col nono mese: ho sistemato i libri del bisnonno, mi sono fatto tagliare i capelli da mia madre e ho riparato la cara vecchia sedia di lacci. Settembre è il meglio per decifrare le grafie sottili dei biglietti lasciati in mezzo alle pagine; per dire addio a legami che poi ritornano; il meglio per sentirti parte di una storia iniziata prima che nascessi. E seguire tante domande nel sospeso dei giorni a cui nessuno osa dare più il nome di estate.
mondello
Soglia
Sono davanti a una soglia, col giorno ancora non del tutto spento. Domani la passerò e sapere ma insieme non sapere affatto cosa mi aspetta, penso sia una buona definizione della parola vita. No, anzi: del verbo vivere. La vigilia è stata un atto di cura e stupore: stampare le parole giuste per domani e decidere a chi darle; ricevere un altro regalo e chiamare l’acquirente per dire grazie, scrivendo a mano su carta un pensiero per gli altri donatori; andare al vivaio, tornare in villa e piantare un oleandro bianco, l’unico nella fila di aiuole che sulla scalinata ospitano suoi fratelli solo rossi – la mia mosca bianca, la nostra mosca bianca; camminare fino al mare e fare l’amore con l’acqua calma e trasparente al vespro sul golfo di Mondello; risalire a casa e sentire l’odore del pane. Domani spezzerò un altro pane passando questa soglia. Per adesso, il varco riposa sotto una mezza luna. Un tappeto di grilli musica il passaggio del gran carro che indica l’asse di rotazione planetaria, impaesando in una camera a sud ogni uomo sulla terra.
Gatti
Ti ho sognata che giocavamo in villa come gatti, presi da avventure solo nostre dentro la foresta e dietro i vasi e le giare della scalinata, mentre gli altri abitanti pure della villa restavano tutti uomini, pettinati da impegni che riguardavano il mondo esterno: spostavano tavoli per imminenti feste con amici, correvano in città per appuntamenti gravi, si fermavano a parlare di quando erano piccoli insieme incrociandosi coi sacchi della spesa in una mano e un figlio nell’altra. Noi saltavamo invece sui nostri cuscinetti tra le foglie secche e il gelsomino nuovo, facendoci il solletico e ridendo al sole, unico padre a chiedersi dove fossimo. Davamo a ogni cosa le spalle, anzi, il dorso tonico ed elastico da cui spiccavamo salti sui rami o tra i ferri della ringhiera appuntita. E non ci premeva il mare a due passi dal cancello, né altra compagnia di cugini o allegria che non cavassimo dal gioco di tormentare lumache lucertole e millepiedi, a mezzo tra il gelso e l’albero di alloro. Noi due per tutto il giorno, e fino al vivo delle lucciole in montagna, mai ci guardavamo chiedendo, chi ti ha cucito addosso la forma di gatto. La luna ci rubò al sole e qualcosa di noi restò accanto a un giglio.
La sera
Da che mondo è la mia villa, si sentono quasi ogni sera lontani artifici di fuoco sparato nel cielo. Così, abbiamo preso l’abitudine di favolare dopo cena, immaginando a turno per chi battano i tuoni colorati. Ieri, mio fratello ci ha convinti che era per la festa della Madonna delle Grazie – quest’anno ha fatto il miracolo più grande sorridendo alla scema del paese durante la messa: niente lacrime, solo un sorriso lungo e definitivo. L’altro ieri invece è toccato alla mia versione: la guerra allegra faceva girandole razzi e figure per un mafioso passato ai domiciliari in un tripudio di quartiere – c’è voluto poco, ho usato il materiale letto di mattina sui giornali. A volte capita ancora che il cielo resti immobile e appeso alle stelle nel silenzio. In questi casi, l’ultimo boccone di cena fa scatto alla fuga di ciascuno in direzioni opposte, presi da un furore di luna, dileguati a scrutare da un antro diverso e muto del giardino il sereno che batte da Recanati fino a qui. Questa è una di quelle sere, di passi lenti che misurano la grande casa col soffitto dipinto in penombra; di simulazioni arboree dentro le aiuole a sentire infiniti minuti sulla pelle; di caccia al lume errante fra gli aghi dei cipressi; sera di parole a cui nessuno presta il fiato. Parole che scriverle somiglia a rubare.
La villa e i falò
Qui in villa non abbiamo colture, ma cipressi oleandri e fogliami caduti a terra d’altra parentela bruciano al vespro, imitando le stoppie arse nei falò sotto la luna aperta dei campi, dove è semplice favolare che qualcuno abbia mondato le cose secche e rimorte con la falce diafana a cui ora muovono odori antichi e per la finestra, a rompere ogni vena di fiume in corpo, se ripenso alla vastità usata da Cesare per immaginarsi felice, al cuore che lo ingannava sull’ipotesi di poterla raggiungere davvero, la luna brunita dai falò sul basso continuo degli animali pastori che abbaiano all’uomo contro ogni visione e gli dicono, Tu sei come una terra – Tu tremi nell’estate.
In ogni momento
Guarda cosa ti combino è il buon riassunto di una maniera che sento mia. Maniera verso se stessi e gli altri. Maniera ulisside, se pensiamo all’idea di sorpresa: quella vissuta grazie alla propria curiosità, e quella generata grazie al proprio genio. Guarda cosa ti combino è indice di corrente ancora in transito fra la veglia e l’imprevisto. E può, una volta tanto, fare da lasciapassare a questa fiducia immotivata: sommerga ogni pudore di non sembrare umile e ogni sguardo ricevuto come un traditore, al modo che l’infaticabile battigia ricopre a notte le conchiglie rotonde. Cosa me lo fa dire? Abitassi davanti al mare, anche tu potresti favolare di tuffarti e diventare pesce in ogni momento – e come pesce, difficile da bloccare.
Ladri
Andarsene via come ladri, ratti e silenziosi, improvvisi, lapidari di congedo, né guardare negli occhi i rimanenti, né voltarsi per vedere la stanza o il pianoforte un’altra volta, la luce che ora entra nella veranda. Ecco l’unico modo per lasciare i posti a cui siamo più legati e non ci abituiamo mai a salutare. Il luogo che attende i ladri, tuttavia, non può essere una casa: prima o poi dovrebbero lasciarla allo stesso modo. Perché i ladri sono ladri, loro dalle case fuggono e il luogo che li attende è sempre un covo, un rifugio, un nascondiglio. Casa, i ladri non ne hanno. Chi allora partendo lascia una casa per andare in un’altra casa, non può andarsene via come un ladro. E questa impossibilità crea lo strappo che riapre la pelle sempre nello stesso punto a tutti gli onesti che abitano in una città diversa da quella in cui sono nati. Io sono una persona onesta. A volte, faccio di tutto per mascherarmi da ladro. Un giorno mi arresteranno per reato di vita altrove.
Resina
Nel tardo pomeriggio di ieri eravamo in giardino, la villa tremava di freddo e mentre parlavamo, ormai davanti al cancello per l’ultimo saluto, abbiamo sentito tutti e tre un odore. Sembra ceretta, hai detto. E io, occhi lucidi sotto gli alberi obliqui e mutilati dall’inverno: questa è resina. La voce mi è uscita di istinto, prima di quanto servisse a capire se avevo detto bene. Ma non potevamo certo sentire odore di ceretta all’aperto, distanti dalle case con le finestre chiuse al gelo. Doveva essere resina. E lo era. A lei quelle mie parole inconfutabili sono rimaste attaccate, nell’aria che ci nutre dal cancello fino alla parete della montagna. Stamattina che ho paura di volare galleggiano ancora, sotto le nubi sparse di Mondello, e lo faranno anche stasera al solletico della nebula piovasca tra i rami neri e l’aura sempreverde, profumata, della nonna: madre musica di nostra madre, terza compagnia. Quando sarò lontano.
Beato abbandono
L’abbandono beato delle ville di famiglia che quest’anno non faranno da scenario alle feste gaie dell’ultima notte di dicembre. L’abbandono languido oltre il cancello dove è profumo di zagara e macchie di arance nell’umida aiuola sul vialetto che porta in montagna. L’abbandono dello spiazzo in cima alla scalinata dove posa la luce di questo primo inverno al crepuscolo. L’abbandono muto che fa cassa toracica ai canti degli alati sugli oleandri e ai passi falsi dei gatti sulle foglie secche. L’abbandono gremito di memorie e giorni condivisi nella disattenzione alla vita che fa miracolose le ore dei bimbi presi a giocare. L’abbandono delle vasche piene e di quelle vuote nel giardino che conosce i segreti della pioggia caduta a piombo e mulini l’ultimo autunno. L’abbandono commovente che invita a risalire la linea continua di mare spiaggia strada tonnara salita cancello, sotto i balconi di ferro, bompressi ai teli di lenzuola giganti contro le luci intermittenti delle feste. L’abbandono e le feste. Soave connubio, incantesimo.
Credimi
Esiste uno spiazzo cinto di alberi dove a settembre la luce del secondo pomeriggio riposa gli occhi e li invita anzi a guardare finalmente davvero in faccia la realtà, perché non più nascosta dietro l’accecante mezzogiorno o già sfumata nei contorni scuri del vespro. In questo adesso, che scrivendolo due volte è già passato, la linea intera dello sguardo taglia come lama calda ogni sfumatura dell’iride e rende presente e più viva l’immagine nata da tutti i suoni lontani che giungono qui, superando gli ultimi canti dei passeri e i saluti delle cicale tra le frasche. E a cosa somiglia la realtà vista per dritto, unicamente qui e in questo preciso istante del giorno di questo esatto mese dell’anno? Somiglia al calore di una voce che ti corrisponde, a una consonanza d’amore. Credimi se dico, nessuno vorrebbe andarsene mai.