Olfattivo

L’odore di pomodoro che hai ovunque sul viso dopo aver pranzato con le mani. Odore di matita nella camera dei tuoi primi tentativi coi colori. Odore di sudore condensato sulle punte dei riccioli rossi dopo una giostra di giochi in casa. Odore di terra e marciapiede che fai quando torniamo dall’infinito della villa. Odore di saliva che ti fanno le mani infilate sempre in bocca per il pizzico del quinto dente in arrivo. Odore di stoffa sintetica e bisogni stantii che esplode aprendo il cestino dei pannolini. Odore di sapone senza sapone e crema alla calendula dopo il bagnetto. Odore di caldo che ti investe da più lati quando ti accovacci su di me al momento temuto desiderato del fon. Odore di cuoio e gomma che fanno i sandaletti appena comprati per i prossimi mesi estivi. Sei luce così anche se io non avessi occhi per l’amore visivo. Ho messo due foto accanto, sullo scaffale dei libri: io con te in braccio davanti alla luce dell’oblò nel nostro primo viaggio in nave; mia nonna con un mazzo di fiori sulle gambe accavallate, regalo per il Natale 2000 della signorina Galbato. L’amore gioca con il tempo e tu sei l’odore di quei fiori.

Mambo

Guarda Roma, come succede in fondo al Celio, ho scritto ieri, commosso da una foto al carnato del cielo che tramontava vicino casa. Ma il cuore, a tratti malinconici, si secca e diventa una scopa. Faccio da punto alle virgole e argine ai fiumi di molti, per scelta voluta e per la parte che, in te morendo, mi è nata subito dentro. In quello scatto però avevo in mezzo una mano che a tratti mi canterà sempre una domanda: perché si seccano le fonti? Forse, perché nella corsa a dare comunicare e trasfondere soltanto è facile smettere di imparare e presto ci si ritrova con le ginocchia piegate a terra. Non smettere mai di imparare, scrivo allora su un foglio. O forse è solo che, due anni fa, ho letto stamattina un alto discorso davanti al tuo legno incoronato e questi sono i giorni in cui riesco meno a ballare. Questi sono i giorni in cui il principe nostro è più bravo a tentare. Giorni che al deserto serve di più un fiato e il ritorno di un cuore bandito. E svanire adagio nel sonno meridiano come Gabriel, ascoltando l’ultima neve cadere lieve e lieve cadere sull’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti.

Le mie dita

Ieri sera in balcone, mano in tasca, ho sentito stringere un po’ il mignolo dove in genere tengo l’anello di nonna. Ma non lo avevo, era posato sul comodino accanto al letto. Sarà che ti penso sempre e ieri ho capito che ormai il mio mignolo sinistro è tuo per sempre. Poi però ho ricordato che tutti usano questo dito per misurare la parte più piccola in termini di qualità, come: Allevi non vale un dito mignolo di Bollani. E mi sono detto, no. Lei vale tanto. Ida, che mi comunicava la sua vita al pianoforte, dove il mignolo serve a cantare le ottave periferiche e inarrivabili, le più remote, sognate dalle altre dita che balzano a cavare anima da altri tasti. Così ho apprezzato la qualità unica di ciascun limite della mia mano, titolare delle occasioni che posso cogliere ogni giorno del tempo breve. Andare lontano (mignolo), dire a chi appartengo (anulare), toccare il profondo alle cose (medio), puntare l’ultimo orizzonte (indice), agguantare i sentimenti fuggitivi (pollice) – mi prendi la mano, accosti il dito al mio che gli corrisponde e scopri di nuovo che sono uguali, ti diverte ogni volta: vediamo, di chi è questo? Nostro, nonna.

Vespro alla Cala

La luce cala dal mattino fino a qui
vedi, sul teatro d’acqua
che sarebbe rimasto identico
lo sapevo, davanti al vetro
senza più te nella stanza – ormai
non ti affacciavi da molti anni,
ma scolorendo nella sera
oggi non regalerà albe agli antipodi
perché si china in cuore
e accende un giorno tutto mio,
devia la tua mano d’aurora
nei suoni che ti sentivo
nascere e mi sapevi nascere
standoti sempre vicino e nel canto.

Dal cielo

Siamo scesi dal cielo ieri notte bucando le nuvole insieme alla pioggia. L’aereo in ritardo di cinque ore ci ha bloccati davanti al mare nero dell’isola fino all’una. In perfetto orario sul distacco di ogni speranza tu, invece, mi sei tornata come anello per la seconda volta, il terzo giorno dopo averti persa. È stato il giorno più luminoso e ieri, in buon anticipo sul mattino, prima di andare a letto di nuovo al centro dell’Italia, ti ho sentita su di me. Ti sento ormai sempre su di me: non come la luna che spiccava dal profilo giallo di Punta Raisi, ma come un sorriso e un fiato a pochi centimetri dalla testa, gli occhi fissi su di me soltanto. Quando succede questo, io mi sento scendere dal cielo insieme a te.

Doc

Oggi guardavo una delle puntate che manda Rai 5 sui grandi della letteratura italiana, stavolta toccava alla selvatica Elsa Morante, e all’improvviso mi ha morso un pensiero. Soppesandone con Camurri la grandezza e beandomi delle osservazioni di Trevi e Berardinelli – fra vari estratti, letti da Licia Maglietta – mi sembrava di afferrare davvero l’importanza e la grazia di una scrittura autentica e dire, mi sono detto, che all’epoca non c’era solo lei, ma tanti altri che oggi ammiro come classici, da Gadda a Calvino a Pasolini (citando tre esempi diversi, ma di scritture ugualmente organiche). È stato allora che, investito dal fulmine Ida, mi sono detto, in parallelo, e dire che mia nonna è stata perfetta contemporanea di tutti questi artisti e, potendo quantomeno accorgersene, si è occupata invece per tutta la vita di un altro libro: quello che le usciva di bocca ogni volta che stavamo insieme. Il suo romanzo orale non ha nulla in comune per accenni o ispirazione con l’arte o la biografia di quei grandi – vite sfioratesi neanche da lontano, un giorno, che so, nella Venezia degli anni Trenta – eppure fonda la mia letteratura in maniera più vera di qualsiasi altra. A quel punto ho sentito il morso. Più saggiavo l’estraneità pacifica, la reciproca indifferenza tra quelle due realtà coesistite (Letteratura dei grandi, Vita di nonna), più entrambe acquisivano merito e bellezza, ogni volta che riuscivo ad accrescere la distanza fra loro elencandone gli attributi. È possibile scrivere o, ahi!, vivere davvero; altrettanto miracoloso è l’uno o l’altro destino.

Primizie

Passata ormai una settimana, sono finiti i nomi dei giorni da pronunciare per la prima volta senza il tuo respiro sulla terra. Stasera però ha iniziato a piovere, per la prima volta dal tuo respiro, così ho scoperto com’è fatta quest’altra pioggia, questa pioggia nuova, e te la racconto. So che ancora mi aspettano tante altre primizie, dal tuo respiro: il primo ventuno marzo, il primo bagno a mare, il primo compleanno e tanta altra vita nuova. So che forse il loro calore mi sembrerà sempre più raro, perché più rare saranno le prime volte, non più legate al ciclo delle stagioni, quando il mondo avrà ballato per tutta la sua pista intorno al sole. Per quanto rare, tuttavia, la promessa certa di una tua ultima primizia mi accompagnerà sempre, finché non sarà mantenuta la prima volta che la terra mancherà del mio respiro, dal tuo respiro sulla terra.

Nebula

Mi cade in mente il fulmine Ida e nel petto sento le accelerazioni di un amore che mi si effonde attorno come nebula di sale scoppia dal mare rotto sul cemento e fluttua al vento in controluce di lanterna dopo il crepuscolo, perché trabocchi e ti rifrangi e sbatti sul dovere che in questo momento ho di fare altro, per lavoro. Così, mentre lavoro – ma sarà anche mentre passeggio, faccio la spesa, rido con gli amici, canto una canzone – ti si vede tutta intorno a me, fulgore di misteri indomiti a qualsiasi lancia d’orologio.

Luce

È notte nel viale di S. Lucia, al sant’Orsola di Palermo. Per brevità di stoppino, la fiamma che a mezzogiorno non arrivava su, a ripararsi dal vento fra i vetrini della lanterna, adesso sarà spenta e la sua candela resterà così a lungo, nuova. Ma adagio, adagietto, il tappeto odoroso di colori che ricopre il marmo avrà acceso di certo la sua fittissima trama per fare ancor più bella la luna sui cipressi e raccontarle come sono andate, e cosa sono state, tutte le cose.