Siamo tornati ieri da una settimana al mare, sull’altro versante dell’isola. Mi mancano il silenzio e la vicinanza della nostra camera alla riva: di giorno, possibilità sempre aperta di fare un tuffo; di notte, ninnananna di spuma sotto le stelle. Ma questa casa di città in cui siamo tornati, in fondo, è una delle più vicine di Palermo al mare, benché la Cala sia interdetta ai bagni e certo silenziosa solo prima dell’alba. Appena arrivati qui, a febbraio, a ogni stretta di timore per il futuro imminente mi rifugiavo nella possibilità di controllare dal balcone le navi che ogni giorno vanno e vengono da Napoli o Genova. Questa visione – sentivo – mi ridarà sempre in bocca il gusto di essere appena arrivato e di restare in uno dei punti di questa città idealmente più “vicini” a Roma, non mi farà mai dimenticare la sensazione di avere le spalle ancora leggere e, se ne avrò proprio bisogno, asseconderà l’illusione di poter prendere il largo allungando un passo sul ponte della nave. Anche durante la quarantena, nel silenzio immobile del porto, ogni sabato a mezzanotte si muoveva il traghetto della GNV, bucando l’idea di essere tutti in gabbia e aprendo misteri sulla sua attività inconsueta. È la fortuna di chi vive al limite, non per collaudare le possibilità estreme del corpo, ma rubando invece qualche sogno a uno scenario di confine, zona molle del paesaggio che vive di transiti. Stasera mi affaccio sulla piazza e mi chiedo: di cos’è fatta la bellezza dei tuffi non programmati, cosa fa scattare la meraviglia delle ninnananne marine? La permeabilità dell’ambiente, forse, e il ricamo possibile di un segreto: caratteri di ogni vita al margine. La spiaggia, così, è lontana; il silenzio è una chimera. Ma ho in tasca un po’ dell’oro che lùce sull’altro verso dell’isola.
paesaggio
Palermo è un incendio
Il sangue dei monti è fuoco e urla di notte davanti ai vetri della grande città sigillata alla sabbia dello scirocco: gli incendiari hanno fatto vulcano del colosso di rocce che guarda i palazzi. Il monte Cuccio è striato di fiamme sotto i due pinnacoli che qui chiamano le minne dando attributo femmineo al gigante che ha nome di maschio, conferma che tutte le cose al sud sono mescola di opposti – a volte sublime concilio, altre guerra violenta. E la cenere galleggia nell’aria desertica sopraffatta dal crimine e dall’ignoranza, dall’inverosimile ottusità del bene che pure c’è e riempie i gesti degli sconosciuti, le lacrime dei muti. Furioso, il vento di stanotte a Palermo unisce il fuoco aperto sui monti al metallo forsennato delle drizze nel porto che imitano le campanelle di un pascolo. Non è normale tanta aria calda alzata a quest’ora, non è naturale il fischio della sua corsa, pensano gli insonni al balcone sullo spettro delle piazze. Poi, gli alberi di vedetta sul gomito della Cala si piegano facendo una lingua dei segni che dice: non è naturale solo ciò a cui non sei ancora pronto – sgomento di bassi esplosi da una Golf al semaforo rosso come il bagliore nel cielo su Baida. Chi corre sfidando questo vento di fiamme? Gli ignoranti scattano al verde come faville dal monte acceso alla riva nera del mare. Il giorno dopo, questo giorno, è un sabato mattina convalescente, risveglio dopo due notti di febbre innaturale del paesaggio – le foto confermano la diagnosi: gli incendiari hanno fatto vulcano del monte più alto di Palermo. E come il magma scorre alla conca mutilata della città così scorre la morte nel sangue dei palermitani che bruciano la loro madre, perché la morte di ogni cosa per denaro è l’ossigeno che li tiene in vita. E li terrà certo nel tormento di pensieri suicidi, ogni volta che le pause dal crimine daranno loro il tempo per pensare al nulla di cui sono servi. Serva della vita, invece, la natura si rinnova nel tempo lunghissimo che all’uomo non è dato e non servirebbe nemmeno.
L’artista minore
Ma ai nomi massimi si accompagnano, ad aiutarli, a incoraggiarli, a preannunciarli, o a costruire in purezza e a parte un loro mondo, maestri in qualche modo minori: minori per quella convenzione che dà, a chi è interprete di stati d’animo più semplici e miti e privi, per innocenza, di “distacco”, un posto più basso di chi è preda di divoranti ardori. [Nei quadri di Cima] il paese e l’uomo parlano con la familiarità di una circoscritta giornata di pace quotidiana. Il bene metafisico è tenuto un po’ in ombra, in ombra il senso di un trionfo: quella quotidianità è intessuta di mille “ruscelletti di salute”, di mille sobri fili; di quel bene lascia tralucere le forze attenuandone le prospettive immense. Tutto è qui, tutto si affratella a noi, è per noi. […] Questo “stare fianco a fianco” per una legge accettata istintivamente sarebbe dunque minore e diverso dal rapporto proposto dai massimi? Forse. Ma non è minore né diverso nella stessa misura in cui, pur rimanendo se stesso, prepara, integra, costituisce variazione. Abbiamo qui le figure e le terre che si ritrovano o più o meno negli altri grandi, ma qui la fantasia vagamente ariostesca che anima le linee dei colli e mobilita le minime vite dei personaggi di sfondo, s’acqueta nel tenace colloquio con una realtà amatissima e impellente alla quale il maestro rimaneva sempre ancorato, nel suo affetto nativo affinato talvolta dal vagheggiamento del ricordo. E i colori delle immagini “portanti” sono da cogliere come frutti. Questo mondo non ci intimidisce, ne sentiamo il respiro, ne sentiamo battere il calmo cuore.
L’armonia veneta si atteggia qui in un suo sogno di onesta fanciulla, sogna se stessa come agreste e soda vitalità, che non vuol nemmeno sapere di quali fatiche e rischi vinti sia testimonianza: e i castelli premono pingui di logge finestre e torri, le stradicciole e le mura gironzolano per balze a misura d’uomo, la chiesetta conversa col querciolo che le fa compagnia, i dirupi si sciolgono in serenate accessibilità, le piante sono quelle che ci donano ombra e che portano dovizia sulla nostra tavola; le donne i giovani i bambini i vecchi vengono dalla campagna di sempre: salute baldanza grazia dignità immediate. È quella di Cima, la variante in cui la realtà veneta appare come “distesa” in un mito benigno e terrestre, senza ieri né domani: da godere ora in questa rifrazione, che non è tutto, ma che, non tremando nemmeno di segrete proposte di superamento, non trema di nulla, è certezza di universale concordia, di un primato in nessun modo discutibile della vita, è pane offerto umilmente come se per diritto dovesse appunto essere “quotidiano”: forse il più difficile.
Andrea Zanzotto (da Un paese nella visione di Cima, 1962)
Fine stagione
La capanna dei due cuori non c’è più. Uno è il mio, l’altro è blu del mare che già hanno smontato, aprendo la sabbia a un disordine temporale: il quindici settembre è sì finita la stagione balneare ma non ancora l’estate, che invece muore domani aprendo la via ai brividi autunnali. Questo lieve smottamento di una settimana sul cambio di nome al paesaggio lascia sempre un varco aperto per l’intero autunno, sulla dorsale marina che a sud risalgono i corsari nelle giornate ancora di sole, per rubare anche in ottobre o a novembre un tuffo a Mondello che riunisca i due cuori, ma breve e senza il tempo di costruirci di nuovo la capanna. Solo restare avvolti in un telo che apparecchia il ricordo della stagione finita e il sogno del mare prossimo in cui ridestarmi fra un anno. Con tutta la vita in mezzo e inesplorata ancora da attraversare.
Fiumi
Oggi è la prima giornata del paesaggio indetta dal ministero dei Beni culturali e noi non ci stupiamo più delle città coi fiumi. Roma, qui, dà la misura della nostra millenaria capacità di plasmare il territorio a nostra immagine iniettandoci un’infondata idea di onnipotenza sul pianeta che angustia qualsiasi meraviglia residuale sulla presenza dei fiumi in città facendoli dare ormai per scontati, di valore pari a qualsiasi elemento urbanistico eretto a bella posta dai nostri macchinari. Eppure, ricordo che quel fiume è lì da molto prima che Romolo e Remo litigassero; che tutti i fiumi – esclusi i dotti creati dalla sapienza contadina per addomesticare gli indirizzi dell’acqua nei campi – stanno dove stanno da molto prima che tagliassero a metà i centri abitati; e che il tempo scorre da molto prima che l’uomo lo arginasse nelle sue favolose tassonomie. Ma il tempo attende il nostro arrivo, mentre il paesaggio ci ha come comparse.
Finestre
Una finestra su un fiume non sarà mai come una finestra sul mare: il canto dei grilli e la simbologia del tempo non basteranno, e neanche il vento che usa gli alberi per imitare il battito della riva. Una finestra su un fiume raccoglierà l’aria che scende a valle dalle guglie rocciose e porta odore di erba e fieno sotto le stelle, mormorio di un paesaggio che torna proprietà unica delle bestie, esempio della convivenza antica fra tutti gli esseri della terra. Una finestra sul mare vive di correnti che doppiano la speranza prima di toccare l’orecchio teso alle voci dei naufraghi, lamento incessante e respiro del cosmo che si rivolta nell’acqua salsa con una violenza che ai sogni degli asciutti distilla ninnananne. Una finestra su un fiume è una e una sola, su quel fiume. Una finestra sul mare misura invece da cardini diversi lo stesso sprofondo.