Esseri antichi

Ci hanno buttato fuori da molte vite, abbiamo acquisito un’antichità e ora siamo già alla terza, quarta mano di restauro. L’età arcaica si è interrotta con la guerra di mafia e le stragi. L’età classica è iniziata con internet. L’età moderna è esplosa con le torri gemelle. Il contemporaneo ci ha polverizzati con la crisi e la pandemia. Abbiamo quaranta anni, siamo nel mezzo. Pochissimi riescono a fare la vita che più o meno facevano i loro genitori. Molti hanno avuto un figlio in calcio d’angolo, con buona consapevolezza ma poco tempo per il secondo o per vedere il primo oltre i suoi trent’anni. Moltissimi portano il bagaglio tra solitudine e lampi di creatività.

Salvano le relazioni, quelle che sopravvivono alle scelte personali, allo stigma sociale imperante; salva fuggire dall’Italia, per dove ancora non sei capro espiatorio o combustibile politico per il fuoco fatuo degli “adesso basta” o “servono riforme”; salva il caso, che agli ostinati può anche far trovare un lavoro o l’amore, come pepite di fiume. Non credevo possibile che in un paese dove “si conoscono tutti”, come diceva Longanesi, si alzasse con tale efficacia nel discorso pubblico e in quello più dolorosamente privato uno spartiacque di paura, odio e sufficienza verso una minoranza di persone, lavoratori contribuenti incensurati trattati come ultima variante di un male che da due anni tutto giustifica, tutto muove, tutto cancella, tutto confonde.

Dal contemporaneo non si esce. Ma ho voglia di partecipare alla ricerca di nuovi modi, microsociali o anche solo privati, per frantumare ogni mattone edificato a isolamento di categorie intere dietro un muro di giudizi precotti e un’etica ministeriale basati sulla pornografia del buon esempio, che alimentano la disperata difesa del capitale dando lustro vacante ai cinque minuti di popolarità dei sudditi. Saranno modi e linguaggi compositi, nati dalla stratificazione di stili e buone pratiche appartenuti a ogni età vissuta finora – da quella arcaica all’attuale – ma dosati nella trasparenza lieve di un sorriso, un gesto, una parola, un silenzio, una compagnia più forte di qualsiasi muro.

Saranno modi e linguaggi che mi faranno toccare la pelle distante o mi daranno una ragione nei casi di obbligata rinuncia per abbandono altrui della vita. Sarà qualcosa, un esercizio nuovo della presenza che mi farà essere ancora reperibile. Non impaurito, né sparito, né depresso, né sordo, né invincibile, né avaro o senza mani ancora per molto tempo. Ancora per mezza vita, si presume. Ancora fino a domani, si riassume. Ancora e in ogni momento, si desidera.

Transito

La vita di tutti, io credo
è in mille varianti
un tentativo commovente.
Fai del mondo e dei fatti che vivo
la lingua con cui mi parli,
Signore. Salva il transito
dei vivi che muovono alla luce
in ambo le direzioni,
verso fuori ma addentro pure
la tua gabbia millenaria
– ad alcuni serve un pettine
ad altri vento nei capelli
per esserci ancora.
Tu li aspetterai ogni giorno
lì, col nome che ti hanno
dato o rifiutato.

Metà sopportazione

Il mare è salato, il sudore è salato. Il mare è il sudore della Terra e aumenta sempre di più: le acque già iniziano a coprire le spiagge nel maggese letale dei ghiacci che si riducono ai poli. La Terra fatica, da madre cerca ancora di contenere il nostro do re mi, ma canterà molto più a lungo di noi: cinque miliardi di anni le restano, finché dura il ciclo del sole che è arrivato a metà. Metà sopportazione. Poi la stella diventerà rossa – l’ho letto giorni fa – e questo granello celeste che ci dà respiro, e noi glielo togliamo, si aggiungerà alla polvere cosmica nelle anse del tempo. Avverrà una domenica perché, una volta iniziato, il conto è reperibile all’infinito. Non ci saranno più uomini a contare, ma sarà certo domenica. Una domenica come questa, il mare annegherà il cuore superstite del deserto africano. E noi saremo finalmente chiusi, completi in una storia fatta di luce solare, terra fin quando ce n’era, vita cosiddetta intelligente e altra ancora migliore: tra le rovine, vita di alberi in fiore.

Abisso

L’abisso interrompe la via piana del giorno: la serie di impegni, l’ordine prestabilito si bloccano davanti all’abisso. Ci cadi per un incontro inatteso, una telefonata difficile, un agguato della memoria, un chiodo esumato. A volte è un vuoto gioioso pieno di capriole nella pancia, altre è una visita agli inferi senza anima di fianco. Può essere l’intuizione delle nostre fortune viste dall’alto o il conto millimetrico dei fastidi che cela un intero malessere. Abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto oblia compose il conte insuperato. Tutti gli abissi infatti, lieti o dolorosi, sono accomunati dalla dimenticanza. Dispàre il mondo nell’estasi del momento, dispàre la terra nella cuna del tormento. Se non ne esci per un bisogno primario, lo fai perché un altro è nella stanza: ti allunga la mano a spezzare l’incanto e prova un’estrazione indicandoti la via per risalire. Risalire dal bene o dal male, ma a una presenza che comunque li supera entrambi. Il ritorno allora è sempre una richiesta di conferma sulla pronuncia di un nome: oggi era il mio, e il tuo di rimando sulla via.

Il mio nome

Poco fa, salutando la notte in balcone, ho sentito chiamare il mio nome. L’avrò certo confuso con qualche altro suono, tra i cigolanti carri dei netturbini e le ultime voci di chi rientra a casa dopo una serata alta con gli amici. Subito dopo però, mentre ancora chiudevo la finestra, mi sono detto: eppure qualcuno ci sarà nel mondo in questo momento, proprio adesso, allo stesso buio o già nell’alba di levante e forse ancora nel tardo pomeriggio dell’ovest, che starà chiamando il mio nome. Così è giusto dire che mi sono sbagliato solo in parte. Sì, è anzi più verosimile dell’altro, questo ultimo pensiero che mi sfiora di notte. Qualcuno ora e sempre chiama il mio nome.

Ti ho sognato

Sai, stanotte ti ho sognato. Cos’era, a scuola, dire o sentirsi dire una frase così? Sigillata da un sorriso poi, e due attimi di silenzio come gli occhi, due. Era un balsamo velenoso, paglia sul fuoco alle fantasticherie segrete del timido innamorato. Oppure era solo un fatto, nudo e crudo sì, ma pur sempre arrangiato su un basso continuo di colombi che tubano in primavera e tra i rami lasciano mille piste libere all’arrivo fulmineo di Eros. Poteva essere solo una frase ma illuminare un’intera giornata aprendo gli atri di un cuore pigro, o anche solo farti piacere se eri già felicemente impegnato. Da adulti, non capita spesso di dirlo o sentirlo dire, e questa mancata esternazione non riguarda solo un pensiero naturale per un’altra persona ma una patina più diffusa che annebbia il nostro rapporto con le cose e fa dubitare che crescere significhi disamorarsi del mondo, pestati da delusioni e mancati traguardi, o pretesi dai recinti a cui dobbiamo fare la ronda ogni giorno.  Continua a leggere “Ti ho sognato”

Resina

Nel tardo pomeriggio di ieri eravamo in giardino, la villa tremava di freddo e mentre parlavamo, ormai davanti al cancello per l’ultimo saluto, abbiamo sentito tutti e tre un odore. Sembra ceretta, hai detto. E io, occhi lucidi sotto gli alberi obliqui e mutilati dall’inverno: questa è resina. La voce mi è uscita di istinto, prima di quanto servisse a capire se avevo detto bene. Ma non potevamo certo sentire odore di ceretta all’aperto, distanti dalle case con le finestre chiuse al gelo. Doveva essere resina. E lo era. A lei quelle mie parole inconfutabili sono rimaste attaccate, nell’aria che ci nutre dal cancello fino alla parete della montagna. Stamattina che ho paura di volare galleggiano ancora, sotto le nubi sparse di Mondello, e lo faranno anche stasera al solletico della nebula piovasca tra i rami neri e l’aura sempreverde, profumata, della nonna: madre musica di nostra madre, terza compagnia. Quando sarò lontano.

Cantare

Io credo che un po’ si senta la mia mancanza in villa, specie la sera. Fàvola pure che sia lì ora: canto nel sottoscala o in doccia e forte, da arrivare quasi al cancello. Mi senti? Come faccio quando ci sono davvero, marcando nell’aria un solco che resta vuoto quando non ci sono, perché solo della mia voce ha forma. Come se seminasse un’edera volatile, il canto, che cresce con me lontano.

Questo posto

A me piace qui. Ci pensavo a linea spenta e vale rimbalzarlo in connessione. Questo posto, prima di tutto, c’è. E poi, la sua tenuta non dipende da altri davvero: alcuni giorni la conta delle visite è rimasta ferma a zero e in serata ridevo alla scommessa di serbare intatto il grafico, pulito di bucato fresco a pianoterra, come quando rifiuti un’uscita e a casa godi per conto tuo il silenzio croccante del mondo. Ho aperto il 22 settembre e al massimo finora ho avuto 32 visualizzazioni. E mi piace, mi piace questo massimo e quel minimo, entrambi fanno risuonare il posto. Ed è bello sentire di averne uno; oltre il fatto che un blog ormai ha il sapore un po’ rétro della baita in montagna, lontana dalla social metropoli del tempo reale. E si leggono persone che non ti aspetti. Io non ho solo questo, certo. Ma questo anche. E lo auguro a tutti, di avere un posto.