Stamattina in balcone c’era un sole quasi fuori luogo, avevo una bottiglia ormai arrivata al fondo e ho iniziato a bere. A un tratto mi fermo, guardo la piantina nel vaso, verso un po’ d’acqua sulla terra, poi finisco il resto. Quando finirà questa ondata invernale, mi sono detto, cadranno le maschere e allenteremo la corda. Pure non riesco a vedere come potrà unificarsi di nuovo la terra dove l’hanno tanto spaccata, tra i cittadini regolari e i colpevoli di tutto. Se i primi sfiateranno il rancore allevato dal sadismo governativo ritrovando il calore tra simili e mille conferme sociali alla loro buona condotta, ai secondi si staccherà lo stigma dalla pelle e sentiranno l’ustione singolare fin lì attenuata facendo fronte comune. Quasi uno scambio delle parti avverrà nel tempo delle rondini. Temo che non sentiremo lo stesso canto all’imbrunire sul fiume, che vedremo formarsi geometrie diverse nell’aperto celeste. Pure basterebbe bere di nuovo la stessa acqua, per scusarci e ringraziarci a vicenda. Come ho fatto io stamattina, per la prima volta in vita mia.
primavera
Rimastare
Il sole bussa alla portafinestra e fa entrare in cucina le api che volano a cercarmi fiori intorno alla testa, il miele d’autunno è finito ma loro non sono venute per me. Dicono, siamo scappate dai calabroni sul glicine, appena lasciata la casa di cera per trasformare l’oro in primavera (ieri mi hai detto la vita è promessa di vena in miniera). Presto anche noi voleremo sull’onda colore del vino, da questa terra all’altra, isolata da acque metalliche e sale che brucia la faccia alle persone. Sentiremo le loro voci di conchiglia dura alle maree più violente e io avrò un occhio migliore, più forte di adesso, capace di trattenere la pioggia se, partendo di nuovo, una bimba ci parlerà come ha fatto col nonno una sera, chiedendoci ancora un po’ di rimastare.
La voglio ogni giorno
La voglio ogni giorno e per tutto l’anno. Pazienza se alcuni mesi di più e altri di meno: mi rimetto alle decisioni della rivoluzione terrestre. Basta che abbia la mia fiala quotidiana. Averla pure avuta finora non me l’ha mai fatta sembrare normale, tanto mi serve davvero: diretta, più o meno calda, traversa, sfumata, lontana, morente. Basta che sia naturale. Che sia anzi nel nome di chi mi sta accanto, tanto mi serve davvero. Nei suoi occhi. Per accendermi come i prati si accendono, come il mare, come il cielo si accende e l’anima ignorante che non sa morire, che non sa che vuol dire e non capisce come si possa fare.
In questo calore
Vampa
A Palermo la notte dei tempi è stata accesa per la prima volta da una vampa, all’epoca si raccoglieva solo la legna, ora si fa anche con l’immondizia. Dicono che il rito, fissato al vespro di ogni 18 marzo, nasce dal culto del sole. Di certo, oggi in scaletta non possono mancare gli scontri tra i suoi fedeli e i vigili del fuoco, lesti a gettare acqua sui roghi in fiamme. Se diventasse legale, non si farebbe più, sparirebbe. Le pire consumano travi, porte, mobili vecchi; poi all’ultimo minuto si aggiunge qualsiasi cosa. Quest’anno, in cima a tutto c’era un pupino dell’uomo ragno contro il cielo che iniziava a tremolare nell’aria bollente. I figli stanno a guardare incantati e fieri accanto ai padri: domani è la loro festa, una sfincia non ce la toglie nessuno. Giriamo tutta la settimana in cerca di legna, dice il secondo in comando alla vampa di Ballarò. La polizia è già venuta e si è portata via mezza catasta, ma noi l’abbiamo rifatta, la rifaremo ogni volta. Il secondo in comando ha tredici anni e una lama di coltello al posto del sorriso. Non gli importa se il fuoco minaccia puntualmente i balconi e le facce delle case, oltre a scarificare l’asfalto: la vampa nessuno la può astutare, è un pezzo di sole che al tramonto si incaglia su questa parte di mondo e la brucia. La vampa è un rito locale, ancestrale, brucia tutto l’anno nel sangue dei picciotti di borgata, non è roba per turisti di passaggio in crociera, ricconi che arrivano al porto e scendono dalle navi palazzo. La vampa si adduma tre giorni prima che resusciti la primavera e i tagliagole dicono che altrimenti la stagione manco ci fosse, manco partisse: fosse sempre inverno che aspetta di venire squagliato.
A una primavera
C’era una volta un catafalco in tessuto e animella d’acciaio che doveva fare un viaggio, trasportato imballato fragile alto maneggiato con cura. La ragazza che veniva dalla luna l’aveva richiamato alla sua forma, convocato a titolo di primavera decisiva in nome dell’eros che altri chiamano vita. La ragazza era lisa, non meno logora del cucito rosso prima di diventare catafalco in viaggio e anzi, tra le righe, ormai giunto a destino da un canale di laguna a fine ottobre, cioè qui e ora, se non l’hai capito. Lo spacchettarono, tipo visita medica militare, per vedere se era pronto o no alla trincea degli sguardi sulle facce di carne che avrebbero cercato di vedere nuda la ragazza. La ragazza che il suo lavoro le faceva anche paura, e lo faceva spesso come in trance, andando quasi lontano dalle sue mani che toccavano le forme; la ragazza che veniva dalla luna. Sì, e io vengo dal sole, le dissi quando litigammo, una volta, per capire come si rinasce.