Polvere

Ogni eccesso è polvere. L’eccesso di caldo, cenere. L’eccesso di freddo, neve. La neve è cenere gelida, la cenere è neve ustionante. Bianco e nero reggono ogni dialettica, irrisolvibile sorgente del fascino inquieto che siamo. Tutti. Ognuno è fascino inquieto, per l’umidità umana che giace al centro dei suoi eccessi. Almeno due, e di segno contrario. In questo irrompe il linguaggio odierno, spazzando via ogni ricordo dell’umidità umana in cui solo può crescere un seme. Il linguaggio odierno, fatto di “dentro o fuori”, “con o contro”, “buoni o cattivi”, “opinione o inesistenza”. Si raggiunge sempre meno il centro e aumenta così la polvere, neve nei cuori, cenere al di fuori. Pochi ricordano che il nostro meglio è farsi casa dei semi. E per ogni seme, un fascino inquieto, mistero interdetto all’ultima parola degli altri, più spesso mortificato invece al loro ultimo ascolto. Come di passi sulla neve, come una pioggia di cenere.

Ulisse per sempre

Itaca non sarà mai più la stessa. Argo ti ha aspettato, così tua moglie e tuo figlio ormai cresciuto. Tu non sarai più lo stesso di vent’anni fa. Non smetterai mai di tornare. Avrai molti anni di racconto a loro e loro a te per ricucire la trama di un’assenza. Ma la coperta sarà sempre troppo corta. Nel quotidiano, i segni di un tempo incolmabile: in un gesto mai visto prima, una smorfia, un’abitudine, uno scambio di sguardi tra loro che non ti appartiene. Fino all’ultimo giorno, nel tuo letto, con l’ultimo saluto. Per sempre. E chiuderai gli occhi davanti all’ennesima scoperta: solo l’amore compensa le assenze irrecuperabili. Alimentato desiderio di conoscere l’altro, le sue terre straniere che ti vivono accanto.

Una visita

Mi vedi? Sono uno degli ombrelli che camminano sotto la tua finestra. Fra poco citofono. Ho preso qualcosa da spiluccare come aperitivo, resto fino alle sette e mezza. Poi devo andare dai miei, stasera è la vigilia. Ricordami il cognome, sono quasi al portone. Io? Ah, Marco Bisanti, scusa. Non te l’eri segnato? Certo. No, lo capisco, figurati. Mi hanno fermato fino a poco fa, sti controlli sono ovunque. Mai visto tanto zelo per altre forme di crimine, guarda. Crimini veri, che so, spaccio nelle piazze, violenza nei quartieri, attentati, roba così. Dai, ci sono quasi. Ah, senti, non ti ho chiesto se hai cani. No, che paura? Dicevo perché ho un gatto e magari il tuo sente l’odore. Vabbè. Comunque, strana sta cosa – in senso buono, dico. Conoscersi così. Lo faccio perché ci credo. Non possono dirmi chi andare a trovare finché mostro il salvacondotto. Tu puoi uscire solo per la spesa o lavorare. A me non possono ancora impedire di vedere chi voglio. Se mettono altre restrizioni, guarda, mi accollo pure quelle, faccio da cavia a ogni goccia in più senza traboccare, lo faccio quante volte vogliono pur di avere l’ultimo super permesso di uscire. Così come tu devi restare alle tue decisioni. Ormai è una questione di principio. Sì, fondamentale, direi. Sto suonando. Sono davvero contento di aver trovato questa iniziativa. Come? Ah, “Un natale coi lebbrosi”. Non lo sapevi? Sì, non brillano di fantasia. Eh, pure un po’ di cattivo gusto. Ecco, ci sono. Che piano?

Esseri antichi

Ci hanno buttato fuori da molte vite, abbiamo acquisito un’antichità e ora siamo già alla terza, quarta mano di restauro. L’età arcaica si è interrotta con la guerra di mafia e le stragi. L’età classica è iniziata con internet. L’età moderna è esplosa con le torri gemelle. Il contemporaneo ci ha polverizzati con la crisi e la pandemia. Abbiamo quaranta anni, siamo nel mezzo. Pochissimi riescono a fare la vita che più o meno facevano i loro genitori. Molti hanno avuto un figlio in calcio d’angolo, con buona consapevolezza ma poco tempo per il secondo o per vedere il primo oltre i suoi trent’anni. Moltissimi portano il bagaglio tra solitudine e lampi di creatività.

Salvano le relazioni, quelle che sopravvivono alle scelte personali, allo stigma sociale imperante; salva fuggire dall’Italia, per dove ancora non sei capro espiatorio o combustibile politico per il fuoco fatuo degli “adesso basta” o “servono riforme”; salva il caso, che agli ostinati può anche far trovare un lavoro o l’amore, come pepite di fiume. Non credevo possibile che in un paese dove “si conoscono tutti”, come diceva Longanesi, si alzasse con tale efficacia nel discorso pubblico e in quello più dolorosamente privato uno spartiacque di paura, odio e sufficienza verso una minoranza di persone, lavoratori contribuenti incensurati trattati come ultima variante di un male che da due anni tutto giustifica, tutto muove, tutto cancella, tutto confonde.

Dal contemporaneo non si esce. Ma ho voglia di partecipare alla ricerca di nuovi modi, microsociali o anche solo privati, per frantumare ogni mattone edificato a isolamento di categorie intere dietro un muro di giudizi precotti e un’etica ministeriale basati sulla pornografia del buon esempio, che alimentano la disperata difesa del capitale dando lustro vacante ai cinque minuti di popolarità dei sudditi. Saranno modi e linguaggi compositi, nati dalla stratificazione di stili e buone pratiche appartenuti a ogni età vissuta finora – da quella arcaica all’attuale – ma dosati nella trasparenza lieve di un sorriso, un gesto, una parola, un silenzio, una compagnia più forte di qualsiasi muro.

Saranno modi e linguaggi che mi faranno toccare la pelle distante o mi daranno una ragione nei casi di obbligata rinuncia per abbandono altrui della vita. Sarà qualcosa, un esercizio nuovo della presenza che mi farà essere ancora reperibile. Non impaurito, né sparito, né depresso, né sordo, né invincibile, né avaro o senza mani ancora per molto tempo. Ancora per mezza vita, si presume. Ancora fino a domani, si riassume. Ancora e in ogni momento, si desidera.

Il gran sudario

Il mare fa tutto quello che vuoi
al posto tuo, se tu non vuoi
ma sempre al caro prezzo
di una fine: non vuoi
smaltire i rifiuti, li dai al mare
e lui uccide l’ecosistema
non vuoi salvare i fuggiaschi
dalla morte e lui li annega
lontano dagli occhi, non vuoi
elaborare nuove distanze
dagli affetti e lui se ne prende
tutta la colpa seppellendo
le antiche relazioni con loro,
questo e altro fa il mare
per te, le tue cose e ti lascia
riposare se lo chiami
– mare, già come da un marmo.

Now small fowls flew screaming over the yet yawning gulf; a sullen, white surf beat against its steep sides; then all collapsed, and the great shroud of the sea rolled on as it rolled five thousand years ago. (H. Melville, Moby Dick, 1851)

Che bel momento

Dura poco ma se capita mi viene di sottolinearlo, come per istinto. C’è da dire che io vivrei sempre in penombra, vuoi per un fatto di atmosfera, vuoi per non strafare in bolletta. Eppure, abito con chi ai primi inciampi della luce – sia nell’acerbo pomeriggio, sia in un mattino di nubi – non reputa mai sufficiente accendere un lumetto o una piantana. Come se dovesse ogni volta infilare la cruna di un ago o decifrare una glossa medievale nelle tenebre più fitte, anche a mezzogiorno ripeto, al primo inciampo di luce lei accende il lampadario centrale della camera e, se disponibili, tutto il corredo di lumi abat-jour lampade da tavolo e compagnia bella. Capita però di andare da una stanza all’altra, la sera o in una giornata senza sole. Si spegne la luce del soggiorno e si attraversa il corridoio immerso nel buio o nella semioscurità che avvolge anche la stanza in cui siamo diretti. È lì che succede. Non riesco a frenarmi. Un brivido mi passa dietro la schiena e a mezza voce dico sempre, tra me e me verso di lei, come a cercare di convincerla, Che bel momento! Ed è un momento davvero. Il tempo di sentirle accennare un sorriso, negli unici istanti in cui quella bellezza può valere anche per lei, perché sa che fra poco si torna all’abbaglio da stadio, ma un sorriso sincero – dico – per la gioia autentica di una conferma, sul fatto che lei mi conosce più di chiunque e allora si gode quella piccola concessione alla mia mania per la penombra, e quell’istante, ecco, già si congeda, fa le valigie, stacca il biglietto per la terra dei pensieri felici: finito, il buio pastoso che confondeva i contorni delle cose non c’è più. Per un attimo, comunque, c’è stato. Il buio. Il buio che mi fa dire bello, di un momento al suo centro.

Respiro

L’amore è il mio lungo respiro. Il suo ossigeno mi tiene in vita per cicli lunghissimi, da consumare anche mesi interi, tra una sola immissione e emissione di fiato. Sono due organi gemelli in moto continuo per recuperare l’aria, ridarla al cielo e ripetere lo stesso movimento. Difeso dal costato, l’amore presiede al senso della mia vita senza negare il vuoto tra la fine di un’emissione e l’inizio del respiro successivo. Se il corpo funziona così, ricordandoci che pure il bene maggiore – l’aria – deve rispettare il limite di cui siamo fatti, fermandosi ogni volta sulla soglia della nostra capienza alveolare, vuol dire che è necessaria anche la negazione di fiato, negazione di ossigeno, negazione d’amore, perché si dia un ciclo nuovo, ancora vita, ennesimo respiro, altra pienezza. Non riesco a immaginare uno che, fatto il primo respiro, corra a sostituire i polmoni dicendo l’ossigeno è finito, questi due non funzionano. Sa infatti che l’amore comprende anche il non-amore per alcuni istanti decisivi, in base al limite di ciascuno, al vigore dei polmoni, alla capacità del torace. Se il mondo è ancora in piedi, l’inatteso ci riempie l’amore d’aria nuova ma sono sempre i nostri polmoni, gli stessi fin dalla nascita. Come oggi, dopo molto tempo, abbassata per un attimo la mascherina, l’inverno mi ha messo nelle narici l’epifania di cos’era sempre stato camminare col volto aperto agli elementi. Ridandomi la voglia di un altro lungo respiro.

Pezzetti

Si chiude un anno importante come pochi altri. A parte il contagio mondiale di paura e l’ibernazione di ogni vicinanza umana, è nato mio figlio. Al centro della prima ondata, il 30 marzo, il mare si è aperto formando due alte pareti per darci all’asciutto invincibile di una vita in arrivo. Dopo nove mesi, cifra che mette in pari la sua durata intra ed extra uterina come altre due pareti sospese, mio figlio si diverte a stracciare la carta. Per questo gioco, oggi ho recuperato due dei tanti foglietti che, ormai da quasi un anno, stacco ogni mattina dal calendario e conservo per scriverci appunti sul retro. Via il primo, in mille frammenti poi gettati a terra; via il secondo, graziato da pochi strappi ma sempre fatto a pezzi finiti sotto il seggiolone. Ci siamo affacciati a guardarli. Non so cosa provasse lui ma, intuendo ancora la curva di un numero o la lettera di un giorno della settimana, io ho avuto un’illuminazione. Tienili tutti, ho pensato, falli a pezzi e resta solo tu qui, col tuo dentino e mezzo scoperto quando sorridi anche con gli occhi. A quel punto però era l’ora della pappa, e anche questo mi è parso illuminante, giusto: i bisogni primari e la corporeità spazzano via ogni palco favolistico della vita. In fondo, davanti a quegli unici due giorni eliminati dalle sue piccole mani curiose, l’intero calendario era già quasi del tutto sbiadito.

Transito

La vita di tutti, io credo
è in mille varianti
un tentativo commovente.
Fai del mondo e dei fatti che vivo
la lingua con cui mi parli,
Signore. Salva il transito
dei vivi che muovono alla luce
in ambo le direzioni,
verso fuori ma addentro pure
la tua gabbia millenaria
– ad alcuni serve un pettine
ad altri vento nei capelli
per esserci ancora.
Tu li aspetterai ogni giorno
lì, col nome che ti hanno
dato o rifiutato.