La vita ci ha sparsi dall’isola come polline ovunque sul pianeta. E ci siamo pure trasformati, ognuno nel fiore che già conteneva o in quello che voleva diventare andando a cercare il terreno adatto. Come polline, abbiamo incrociato la strada anche di chi ci ha avuti in allergia e scacciati agitando la mano controvento. Ma noi eravamo nel vento: dopo una lieve flessione, la corsa ci ha spinti in avanti. Adesso il mondo profuma anche di noi, ma nessuno direbbe in una giornata di sole che la nostra bellezza geometrica nasconde anche un po’ di mestizia. Perché da casa non possono sentirci né vederci. Da casa l’olfatto non pesca fino in Canada, dove siamo andati a coltivare il nostro genio per la computer grafica. Da casa, figuriamoci, l’olfatto non pesca nemmeno fino a Roma o a Milano, dove siamo andati a coltivare il nostro genio per la scrittura. Eppure, io credo che ogni odore ricostruisce sempre in sé la strada che ridà al giardino di partenza, come una mappa insita nel genio cresciuto di ognuno. In certi casi, addirittura, sembra che alcuni nascondano fin dall’inizio – come ragione propria del volo che li ha posati altrove – il sogno di crearsi ad arte un ponte privilegiato per tornare a casa in ogni momento. Un arcobaleno che, si sa, è più trafficato nei giorni di pioggia o sul nascere d’autunno.
sicilia
Per contrasto
Ci siamo tanto addobbati il chiuso che ormai abbiamo la pelle a forma di casa e di condominio. Lo capisci solo per contrasto, se hai passato appena il tempo estivo di una Creazione in modo diverso. Tornato così ieri sera dall’aperto, l’istinto mi ha respinto subito fuori dalle mura pur tanto care e mie – la testa voleva il cielo; l’iride, gli alberi. Stamattina ho letto che sono tornati i cinghiali in città, bestie pericolose, hanno la pelle a forma di bosco. La mia sa ancora di mare vulcanico e limoni cresciuti dalla sabbia, sole di fuoco sul dorso e sedizione.
Tu non sai amare
Tu non sai amare terre da cui vengo, dove la morte pare un segreto di cui andare fieri come un battesimo che dal dolore trae continui presagi di rinascita ma si contenta più spesso di viverla in sogno. Tu non sai amare terre da cui vengo, dove più che altrove è facile incontrare profeti che ballano la lingua sacrilega del kairòs, la risposta inaudita al sangue che pare inarrestabile. Ma sono famiglie impertinenti al disamore, musici al silenzio: impertinenti, ospiti all’odio per lo straniero e maestri alla tradizione; morti di fame impertinenti alla disonestà e al sonno, anime vive.
Inghiottire fulmini
Non ti uccidevano se non gli facevi male, non ti avrebbero isolato da tutti se fossi stato innocuo, non ti diffamerebbero se stessi al tuo posto, non monterebbero prove se fossi nel torto. Ma dopo la tua morte fisica e mediatica, finite le lacrime di tua madre e di tua figlia – sei vissuto tra Felicia e Letizia, nella gioia – il lumino della verità si è fatto fuoco grande, ci hanno soffiato sopra i compagni e i ragazzi che ti sono cresciuti intorno superando te e tutte le bufere mentre tu inghiottivi fulmini: finti biglietti suicidi e questioni di femmine, le tue stesse male parole e quella insolenza che usavi contro il potere ti hanno rivoltato contro – stai esagerando, sei uno sbruffone – fino al sangue sui binari e all’esilio dalla tua terra, Giuseppe parla parla, parla troppo, statti zitto.
La diga
Ognuno ha avuto la sua infanzia e la mia si è fatta in modo che certe volte, come ora, rivedo punte d’agave e salici piangenti al sole di un vialetto nel giardino estivo davanti al mare che ci rimbalza colombine dalle Eolie, sono accanto al pozzo a mettere in fila i ciottoli e i vetrini raccolti prima di tornare a pranzo dalla nonna che basta suoni la fisarmonica per farci dimenticare le gioie dei castelli e degli scavi sulla battigia, ma a volte, poi, come s’è incrinata in un attimo la diga si ricuce.