Certe cose è meglio
non avessero
parole m-
-a prole
infinita di
soli viluppi nel cielo.
Come alati
mai fermi
sui rami
a cantare.
Certe cose è meglio
non avessero
parole m-
-a prole
infinita di
soli viluppi nel cielo.
Come alati
mai fermi
sui rami
a cantare.
Quest’anno molte ville di famiglia non faranno da scenario alle feste dell’ultima notte. E sarà più languido l’abbandono al profumo di zagara per le arance nel vialetto che porta in montagna. Nell’ultimo pomeriggio, lo spiazzo in cima alla scalinata farà cassa toracica ai canti degli alati sugli oleandri e ai passi dei gatti sulle foglie. L’abbandono gremito di memorie sulle ore bambine spese lì a giocare aprirà cerchi nelle vasche del giardino che conosce i segreti della pioggia. Fino all’ultimo secondo della conta, niente romperà la linea continua tra il mare la spiaggia la strada la salita i balconi e il vecchio cancello. Se voci saranno, saranno lontane. I bagliori dei vicini petardi, allo scoccare della guerra contro il tempo, non varcheranno quella soglia: l’aria tra le sbarre ferrose farà scudo ai lampi spettrali, la notte arborea non sarà violata da luci scheletriche, nessun fiore dovrà rendere conto del suo colore, né gatto ridurre la pupilla soffiando ad arco nel traversare dalla giara al vaso cucito nel millennio scorso. Le ville deserte è come se avessero già trovato nel cosmo un altro asse di rotazione, e nella vita delle stelle altra danza per battere all’unisono con l’eterno.
C’è un mondo dove un campanello di bicicletta fa crollare interi edifici. Nessuno vuole morti sulla coscienza, così tutti lavorano al silenzio. Ci sono ospedali del silenzio che curano le persone dove emettono suoni alti: un buco a fischietto tra i denti rotti, una nocca dallo scrocchio eccessivo, una caviglia pigra che fa strisciare il piede. Ci sono fabbriche del silenzio che catturano e impacchettano vuoti d’aria da usare in casa o in vacanza perché non si propaghi il suono. Ci sono scuole del silenzio che agli alunni insegnano il labiale, a scrivere senza poggiare la mano sul foglio e a leggere i libri evitando il fruscio delle pagine. Ci sono le chiese del silenzio dove si prega perché a nessuno scappi un colpo di tosse o uno starnuto durante la cerimonia sul velluto. Ci sono interi stadi e impianti sportivi per il gioco del silenzio che non perde mai nessuno e infatti giocatori e spettatori pernottano almeno due giorni sugli spalti. Ci sono ovviamente i vigili del silenzio che monitorano ogni campanello o altro oggetto pericoloso, specie nelle aree urbane, piene di edifici a rischio crollo. Ci sono cimiteri del silenzio che se ci vuoi andare devi prenotare mesi prima, perché solo lì si può parlare, si può suonare, solo lì si può ascoltare, ridere a piena bocca e fare anche un applauso. Ovviamente, in quel mondo i cimiteri sono pieni di biciclette.
L’oblio si ringrazia col silenzio, perché è l’unico modo di prolungarne il languore. Stando zitti si allunga il piacere del nero che scortica la pelle e ci toglie dalla mente di tutti. Dalla mente nostra persino, che vorrebbe farci alzare la testa, comporre un numero di telefono o cercare spiccioli per il bar. Il piacere della sparizione non ammette contorni. L’assenza di suono che vige nel dimenticatoio rende assurda la stessa vista degli oggetti: le forme e i colori non emettono suono, gli occhi non hanno conferme e alla lunga si tollerano come malformazioni aggettanti dall’orbita che invece deve essere libera, cava di globi superflui, pulita. La pelle addirittura sparisce, il nero finisce di scorticarla da tutte le menti del mondo. Non cadere mai nell’oblio, prima che venga il sole è il testo raffermo di una delle mie prime canzoni. Ne vivo il ricordo, la sua nascita in una mansarda davanti al mare, e vengo pescato da me stesso per l’ennesima volta. Così la tenerezza batte il silenzio e lùce nel nero. Mille volte da ragazzo giocando ho avuto la certezza che in futuro avrei avuto bisogno di me e in giornate come questa avrei ringraziato tutto quel fuoco.
A quest’ora della giornata ormai prossima all’attracco, ma ancora presa nelle manovre di ingresso al porto, anticipo il silenzio che la notte può donare a una città. Già prima di cena, si esaurirà la tosse dell’asciugatrice in funzione perenne nella lavanderia sotto casa. Il suono delle posate sui piatti, poi, sostituirà quello nervoso dei clacson in piazza lasciando le auto libere di scivolare lontano. Più tardi ancora, solo una risata alcolica dal marciapiede o i gomiti del carro netturbino graffieranno l’audio televisivo azionato dopo cena. Messa a tacere ogni scatola collegata alla corrente, la notte si stenderà in balcone sul filo d’acqua della fontana nel giardinetto del condominio. Reciso quell’unico mormorio, sentirei ancora il respiro della città, i lontani echi della veglia romana che fluttua nell’aria ingiallita dai lampioni. Lasciando però tutta questa antichità al buio pesto delle ore più nuove, in glorioso blackout fin oltre il raccordo, e superati i grilli delle campagne mute fino al lido più vicino, riuscirei a sentire il rumore del mare, qui, dalla mia ringhiera urbana. So bene che ci riuscirei. Ma ho paura che ormai ingestibile, questo infinito calando, abolita ogni forma di vita sonora tra il mio orecchio e la costa, non smetterebbe più di ingoiare il suono successivo e a quel punto sì, anche il battito marino, costringendo il moto delle acque salse alla stasi definitiva per il mio languore esagerato. Così il troppo amore, ho sentito dire, spesso uccide l’oggetto amato.
Se vuoi che dia un minimo di peso a quello che dici, amico mio, devi farmi intendere che a volte riesci anche a praticare il silenzio, altrimenti non potrò mai capire la differenza tra i suoni tuoi e quelli di una cascatella alpestre, fra le intenzioni di chi ha qualcosa da dire e la natura pur bella, che avrebbe da dire “acqua” ma non se ne avvede.