Quand’ero piccolo mi addormentavo quasi a malincuore, poi mi svegliavo e facevo qualche storia senza un motivo apparente. In realtà, aprendo gli occhi, mi accorgevo di aver ceduto alla volontà dei genitori e protestavo per essermi perso qualcosa vissuto dagli altri rimasti in piedi – un gioco, una scoperta in più che avrei potuto fare. Dormire era una presa in giro mentre io volevo correre dritto verso l’orizzonte dell’età che avevo, senza giri perditempo. Crescendo, si sviluppa la dinamica opposta. Ora amo prendere fiato nel giro dei sogni, soffrendo come tutti certe giornate che vanno dritte a una fatica, alla gestione di una responsabilità. Oggi, però, il problema della preferenza accordata all’uno o all’altro stato, del sonno o della veglia, me lo ha fatto superare del tutto una sintesi di Arturo. Dopo essersi svegliato una volta dal riposo pomeridiano, tra lamenti che mi hanno fisicamente ricordato com’ero io alla sua età, ha continuato a dormire per un po’, rassicurato dalla mano di sua madre. Al secondo risveglio era già diventato grande: Mamma, mamma, ‘ito bene! Ha iniziato a formulare di sua iniziativa frasi di due parole da pochi giorni, al massimo una settimana. Questa è una delle sue prime verbalizzazioni naturali. Lucia non ci crede. Mi chiama: Marco, vieni a sentire che dice Arturo! Dillo a papà, amore. Papà, ‘ito bene! Ma come? Poco fa ti lamentavi e ora apprezzi il meccanismo. L’epifania mi rivolta come un calzino. Si può dormire bene, pur avendo appena protestato per l’inganno del sonno sulla realtà; si può protestare per l’inganno del sonno sulla realtà, pur avendo effettivamente dormito bene. Godimento dei sogni e desiderio di realtà convivono. L’ho imparato oggi da un bambino di due anni.
sogni
Reggere
A volte è il soffitto che tiene le colonne. Non so chi mette questa frase nel mio orecchio. Sto ammirando il soffitto del portico di santa Maria in Trastevere. Mi giro verso un noto giornalista palermitano, la sua smorfia di impotenza, lontano, a destra, come a dire non è colpa mia, è il mio lavoro. Ha appena fatto la cronaca di un abbandono: mio suocero, patologo, ha lasciato un caso assegnatogli dal tribunale. Eccolo, sospeso all’altezza della mia fronte, gambe incrociate, sembra seduto sull’aria. Indossa una camicia da notte bianca a scacchi blu scuri e mi guarda dall’alto in basso. Gli dispiace molto per com’è andata, che abbia mollato. Non l’ho mai visto così esposto, sincero, indifeso. Lo tranquillizzo: non potevi fare altrimenti. È come se ti avessero detto noi non ci fidiamo, gli dico, e tu avessi risposto allora arrivederci, di che stiamo parlando? Domenico posa su di me l’espressione più ricca nuda e diretta che io abbia mai ricevuto, adulto da un altro adulto. Dritto negli occhi. Il suo volto è gratitudine e consolazione insieme. Mi ringrazia perché l’ho sollevato da un peso; mi conforta perché sa che manca tanto a tutti. Quello sguardo mi riempie di calore, mi nutre, mi dà una serenità che basta a farmelo sentire presente per tutto ciò che conta, grande aiuto per me e sostegno per tutti noi. Si china lentamente per abbracciarmi la testa, non smette mai di chinarsi fino alla fine del sogno, mentre sento di nuovo la frase. A volte è il soffitto che tiene le colonne. Non è lui a dirla: non ha mai aperto bocca. Forse è la sua faccia, penso. Subito dopo mi sveglio e il giorno intero sa di questo.
La fantasia non lo sa
La fantasia non chiede permessi, non conosce la differenza tra possibile e irragionevole, così mentre io stasera uscivo per il pane, senza chiedere, lei ha sognato per me una città senza più acuti di sirene per le strade, né di ambulanze (poveri malati) o vigili del fuoco (poveri edifici), né di polizia o carabinieri (povera legalità), niente più corse avvilite di lampi blu sul taglio delle piazze, né semafori bruciati per andare ad aiutare qualcuno, a sedare un incendio, a prendere i cattivi, né tantomeno evitare ritardi alle cene dei potenti, nessun allarme sonoro che irrompe come fosse normale perché la normalità è che nessuno ha più bisogno di aiuto e di niente, basta, diciamo almeno per i prossimi due anni e mezzo, ma sì, anche tre – non lo sa, la fantasia, che è impossibile, anche se ragionevole.
Bianco
Voglio comprare un vestito di lino bianco. Voglio un vestito di lino bianco e dei sandali scuri. Voglio essere sottile. Senza cappello, testa lunga e misura larga addosso, voglio andare al molo. Passeggiare nel vento che mi fa le pieghe. Voglio come un foglio bianco aprire porte da qui al mondo capovolto. Camminare sfiorando le cime, al becco irregolare dei natanti. Ci saranno gatti, occhi lontani, segreta urgenza della mia sfilata – nessuno saprà quant’è necessaria ma tutti avranno aria dalle porte aperte. E gli parrà normale. Non so ancora se uscirò dal quadro marino o se il mio regalo bianco rimarrà aperto per sempre, anche senza me dentro il vestito. So che voglio sulla pelle un grammo di carezze disordinate dal vento, le voglio ospitare in quel vestito di lino bianco, le voglio per dare agli altri un fiato e un respiro. Mentre cammino.
L’albero del cotone
Capire finalmente nel chiuso liscio delle pareti a cosa servono quegli alberi antipatici e refrattari col tronco tempestato di spine dure, detti alberi del cotone. Capirlo finalmente, come ancora invece resta buio molto altro e, per dirne una, l’utilità delle zanzare. Capire che saranno questi alberi, gli stessi che nei giorni di libertà teniamo ben lontani dai gomiti scoperti camminando nelle ville, saranno proprio loro il primo indirizzo delle nostre corse, finita la quarantena. Capire che usciremo dalle case, volando altezzosi tra le piante solitamente belle, dritti a palmi aperti per abbracciare fortissimo quei tronchi ispidi. Ogni centimetro di pelle spingerà per tutta la lunghezza degli aculei, dalle caviglie alle guance mescolando il sangue alla resina e agli insetti, come una richiesta di scuse e implorando che il dolore ci rassicuri di non stare più sognando. E più dolore sarà, più avremo certezza del vero. Levandoci poi sulle punte, coglieremo tutti i batuffoli bianchi – dai rami più alti a quelli più in basso – per curare ovunque le ferite spogliando il vivente e assimilandone la consapevolezza: la creazione ti ha reso capace di rimediare al particolare male che non puoi evitare di fare agli altri.
Si chiameranno padri
Tutti i politici dovranno essere genitori di almeno un bambino compreso tra zero e dieci anni. Finito questo periodo abbandoneranno il settore, se non per meriti riconosciuti di onorabilità nel servizio pubblico svolto. E la politica sarà improntata veramente al futuro e alla pace. Nelle aule dei palazzi si parlerà anche di notti in bianco per la fame o gli incubi dei piccoli, di sistema scolastico e importanza degli insegnanti, di comunità nuove che imparano a conoscersi, di rispetto per l’autorità e senso del dovere, di saggi di fine anno e tenerezza, di gite scolastiche e cura dell’ambiente, di pericolosità delle armi e di ogni forma di bullismo, di eredità continuamente aggiornata all’insegna del bene. Sarà così finalmente trasformata l’Italia – e il mondo intero, su questo modello – in una Terra dei figli. Si chiameranno dunque padri e madri, all’occorrenza, non più politici, questi operatori di giustizia e nuovi educatori della casa comune, com’è sempre stato il nome dei più alti fra i politici nella storia: padri fondatori, padri costituenti, padri nobili. È il sogno che ho fatto stamattina, dopo essermi svegliato.
Allargando
Se darò mai alle mie canzoni un vestito per pose da album, in almeno una cornice metterò il canto dei grilli nelle notti estive. L’ho pensato ascoltando Serbitoli di Toni Bruna ma, allargando, intanto esprimo qui il desiderio semplice di ascoltare una canzone nuova al giorno, poter essere sempre disponibile al raccolto quotidiano e, allargando, vivere con orecchie aperte pronte e bianche da scriverci sopra le impensate meraviglie degli altri e, allargando, favolare che la mia offerta sia accolta di rimando nei padiglioni sconosciuti delle miriadi umane ancora manco nate ma continuamente sul nascere, adesso come nel mistero del tremila. Potenza maggiore non so immaginarla, di quella nata dal tremolo dei parlanti nelle notti al calore.
Margherita (a Firenze)
Mi sono svegliato nel suo cuore e ho consacrato la notte a una fata. Alla fata di un fiore ho consacrato la mia notte fresca di sogno interrotto – Margherita è il nome del fiore, solfeggio d’amore e sua negazione. Felici insieme noi, mi cadeva stanca nelle braccia e poi la curva di un dolore l’adagiava a terra coi petali in torpore. Le mani si chiudevano in cristalli; e le gambe sottili; e il sorriso generoso: lumino basso, sempre più caldo. Nella notte dantesca era infine l’arrivo salvifico di un padre, allora io nel cuore ho aperto gli occhi e così ho visto la fata. Certe volte era falena, certe volte libellula, certe volte era farfalla. Veloce filava nel buio alto dell’ora solare. Un abbraccio è qualcosa da rinnovare, ha detto. E non volevo sognare altro, né più dormire e scordare la mia storia col suo fiore. Come faccio a tornare da Margherita, ho chiesto alla mia fata. Ha detto, a Firenze c’è un palazzo vecchio, un ponte vecchio e una scala antica di tetti che dal portico delle Oblate va alla cupola del duomo, senza passare da basso e nel gran chiasso: bastano due ali di fata, poi un salto e dispàri nel rosa all’imbrunire. Le fate quando ti parlano credono sempre che tu abbia le ali come loro.
Gatti
Ti ho sognata che giocavamo in villa come gatti, presi da avventure solo nostre dentro la foresta e dietro i vasi e le giare della scalinata, mentre gli altri abitanti pure della villa restavano tutti uomini, pettinati da impegni che riguardavano il mondo esterno: spostavano tavoli per imminenti feste con amici, correvano in città per appuntamenti gravi, si fermavano a parlare di quando erano piccoli insieme incrociandosi coi sacchi della spesa in una mano e un figlio nell’altra. Noi saltavamo invece sui nostri cuscinetti tra le foglie secche e il gelsomino nuovo, facendoci il solletico e ridendo al sole, unico padre a chiedersi dove fossimo. Davamo a ogni cosa le spalle, anzi, il dorso tonico ed elastico da cui spiccavamo salti sui rami o tra i ferri della ringhiera appuntita. E non ci premeva il mare a due passi dal cancello, né altra compagnia di cugini o allegria che non cavassimo dal gioco di tormentare lumache lucertole e millepiedi, a mezzo tra il gelso e l’albero di alloro. Noi due per tutto il giorno, e fino al vivo delle lucciole in montagna, mai ci guardavamo chiedendo, chi ti ha cucito addosso la forma di gatto. La luna ci rubò al sole e qualcosa di noi restò accanto a un giglio.
Fiore d’autunno
La vita ci ha sparsi dall’isola come polline ovunque sul pianeta. E ci siamo pure trasformati, ognuno nel fiore che già conteneva o in quello che voleva diventare andando a cercare il terreno adatto. Come polline, abbiamo incrociato la strada anche di chi ci ha avuti in allergia e scacciati agitando la mano controvento. Ma noi eravamo nel vento: dopo una lieve flessione, la corsa ci ha spinti in avanti. Adesso il mondo profuma anche di noi, ma nessuno direbbe in una giornata di sole che la nostra bellezza geometrica nasconde anche un po’ di mestizia. Perché da casa non possono sentirci né vederci. Da casa l’olfatto non pesca fino in Canada, dove siamo andati a coltivare il nostro genio per la computer grafica. Da casa, figuriamoci, l’olfatto non pesca nemmeno fino a Roma o a Milano, dove siamo andati a coltivare il nostro genio per la scrittura. Eppure, io credo che ogni odore ricostruisce sempre in sé la strada che ridà al giardino di partenza, come una mappa insita nel genio cresciuto di ognuno. In certi casi, addirittura, sembra che alcuni nascondano fin dall’inizio – come ragione propria del volo che li ha posati altrove – il sogno di crearsi ad arte un ponte privilegiato per tornare a casa in ogni momento. Un arcobaleno che, si sa, è più trafficato nei giorni di pioggia o sul nascere d’autunno.