Piccoli

Oggi il Sistema mi ha riproposto una foto di nove anni fa. Era la locandina di uno spettacolo per ragazzi che portammo al teatro Biondo di Palermo. Quaranta repliche. Col fondatore della compagnia siamo ancora amici, lui ha circa vent’anni più di me. Davanti a questa foto però oggi ho capito che siamo stati piccoli insieme. La vita di palco – quella prima di salirci sopra, quella apicale dello spettacolo, quella calda e morbida del dopo recita – immette in una dimensione onirica dove il tempo funziona in modo diverso. E non è un caso che si chiami atto la vita portata in scena, fiabesca o realistica che sia, eterno presente del gioco che fai con altri e, in sé, annulla ogni differenza d’età tra gli attori. Tutti appartengono allo stesso altrove dove chi è più grande e chi più piccolo è solo una finzione tra le altre. Lo stesso nome di compagnia indica il motore di questa presentificazione onirica: la relazione, l’esercizio continuo dell’ascolto, ascolto fisico dei compagni, per tenere il ritmo dello spettacolo ma più ancora per risolvere gli imprevisti sulla scena. Qui, nel mondo esterno, Ludovico ha ancora vent’anni più di me. Eppure siamo stati piccoli insieme. Per molto tempo.

Vogliamo nascere

Sento una grande fitta al muscolo dell’attesa: doveva arrivare, dovrebbe arrivare – ancora spero, – un pacco per me entro domani mattina, così che possa portarlo giù a Palermo. E ancora oggi non è arrivato. Si contrae il muscolo di un’attesa lunga anni, ancor più nell’imminenza del compimento. Si compie il tempo attraversato e soffro ogni spasmo del travaglio. Da qui a domattina se mi facessero un tracciato riempirei il foglio di impennate e precipizi nella corsa al ritmo di un segnale acustico forsennato col corpo stretto dalle cinghie. Basta. Vogliamo nascere. C’è ancora tempo fino a domani.

Un altro motivo

Gli esami del mondo non finiscono mai ma io oggi consegno il foglio bianco con dentro più me stesso di ogni merito o risposta pretesi, che guardo fuori dalla finestra i gesti del paninaro sul marciapiede alle prese col banchetto per l’intervallo delle 11:15, che penso alla grande palestra ancora vuota dove all’ultima ora vedrò la ragazza dai capelli rossi e le dirò: oggi c’era il tema di fine trimestre ma io sono venuto qui a scuola per un altro motivo.

Deserti

Avanzano i deserti: è la vita adulta com’è sempre stata, o una descrizione dell’oggi per tutte le età? Gli anni aumentano la siccità e l’attuale situazione climatica è perfetta per descrivere l’immenso fossato che il tempo ci scava attorno da adulti – e sempre di più. Magari i ventenni di oggi hanno ancora un fiume di meraviglia a due passi e una rigogliosa ombra di relazioni alla loro portata. Spero che la retorica dei bei vecchi tempi andati sia solo una stronzata – come ho voluto credere finora – e l’avanzata dei deserti valga solo per me; spero che non sia verità anche per i più giovani, spero che vivano tra loro belle cose impossibili per me da immaginare. Perché crescere somiglia all’inesorabile spoliazione degli alberi intorno, e tu bruci al sole senza riparo; somiglia al cuneo salino che invade la foce seccando chilometri di entroterra, e tu sei flora fauna e raccolto compromessi. Somiglia, crescere, a un bagaglio sempre più pesante di consolazioni. Ieri, per esempio, ho visto tre pappagalli verdi volare da un balcone a un albero mentre tornavo a casa e ho pensato a Gino Strada: c’è un suo libro con questo titolo, non l’ho mai letto, Roma è piena di pappagalli verdi, ma quel volo mi ha fatto pensare a lui, a ciò che rappresentava e abbiamo avuto la fortuna di conoscere, perché avevo bisogno di pace. Oggi, altro esempio, nella mia ora di fila alle poste, ho rifiutato l’invito a entrare in un tipico litigio fra poveri facendo il populista, perché avevo bisogno di indicare chi ha una colpa più grande: quella situazione non si doveva a nessuno dei presenti, ho detto, ho smesso di prendermela con chi soffre i miei stessi disservizi, basta massacrarci fra noi! Basta, tifare il cattivo meno cattivo da sostenere per sentirsi dalla parte giusta; basta, essere stupiti dal consumismo bellico americano che ci trascina nel baratro. Io vedo ovunque gente stanca. Io pure sono stanca. E non c’entrano le nostre fatiche personali, è una stanchezza globale. L’ingiustizia è istituzionalizzata e gli accordi sporchi si fanno ormai stringendo la mano ai dittatori in diretta TV. L’impotenza ci sfinisce. Sia che ne siamo consapevoli sia che non lo siamo. Questo dice Giulia, un’amica che ho la fortuna di conoscere e riconoscere oasi nel deserto dell’età. Che avanza come una catastrofe, cara catastrofe.

I piedi nell’eterno

Io ho già messo i piedi nell’eterno. Ho aperto piccole faglie nel tempo già vissuto che dal mio corpo versano luce di storia per sempre. Ieri pensando a questi anni bui ho rivisto i sorrisi dei nonni: perché ci confortavano? Perché erano perfetti di conclusioni ormai note su vicende anche durissime della loro vita. La soluzione è arrivata sempre: lo scioglimento delle sostanze dolorose nell’acqua del loro fiume non è mancato mai, finché scorreva quel fiume almeno, finché cioè erano vivi. E sapere come va a finire, esserci quando finisce, con tutti i brandelli che ogni passaggio comporta, è meno penoso che stare al centro della paura. L’infanzia che ho vissuto, le curve che ho preso, le ferite che ho avuto, la poesia che ho portato, la vita che ho generato: sono cose indiscutibili. Al centro della paura ho il conforto di questi frammenti di storia già completi, le cui particelle iniziano a staccarsi dal corpo e starmi davanti come carezze, pronte alla deriva nel cielo quando non ne avrò più bisogno. Avere i piedi in parte già nell’eterno, grazie a queste particelle storiche completate, è possibile però solo a chi ha avuto la fortuna (diciamolo) di restare vivo per tutto questo tempo, di tornare vivo ogni volta e capirne la bellezza. Solo se sei ancora presente e il tuo fiume scorre puoi sentirne le carezze trovando motivi, non dico speranze, che controbilancino la paura. E i vivi, i presenti, i fiumi attivi sono sempre una minoranza, pure tra quelli che respirano ancora: molti hanno i piedi sulla terra, ma non più sull’eterno.

Tenerezza

Nel 2007 attivai il google alert per la stringa jorge luis borges. Da allora ricevo mail quasi ogni giorno coi link alle citazioni web dell’autore su cui feci la tesi di laurea. Volevo restare sempre aggiornato, per trarre spunti utili a convertire quel mio lavoro in un testo meno accademico da proporre a un editore. Sono passati quindici anni. Ancora oggi, quando arriva l’alert nel flusso di nuovi messaggi, penso alla fiducia che mi spinse ad attivarlo; penso con tenerezza al ventiseienne che non voleva fare il giornalista – quale già ero – ma lo studioso e lo scrittore; penso al sorriso metafisico con cui Borges avrebbe commentato l’infinità di sue citazioni, perfetto ricalco e simbolo della babele che lo aveva mosso a scrivere tanti racconti e saggi. Il mio fiume è passato senza sosta da allora, ha cambiato più volte la stessa conformazione del paesaggio, tra lunghe secche e piene improvvise, levigato molti sassi e alimentato faune diverse, nelle curve della mia vita personale e professionale. La stringa jorge luis borges rimane ancora attiva però. Passerà qualche altro anno così, altra acqua sotto i ponti e forse un giorno, seduto su una panchina davanti al fiume, incontrerò il me stesso ventiseienne: cosa potrò dirgli, a parte che si tratterà di un sogno, per tranquillizzarlo? Cosa mi chiederà, avendo in risposta soltanto l’enigma dei miei sorrisi? Cosa chiesi a me stesso, senza nemmeno sapere chi ero?

Tutto vero

Aumentano i giorni passati dal taglio improvviso, inaudito, e tutti iniziamo lentamente a sentirci di nuovo: dopo la forte detonazione l’acufene scema ridando corpo e volume alla voce del tempo in cui siamo rimasti e rimarremo. La voce dice: è tutto vero. Quando inizi a sentirla è una persecuzione; a volte sei equipaggiato di faccende, altre volte il pugnale corre senza problemi. Amerei che per gradi questa voce diventasse una compagnia con cui edificare l’altare delle cose più belle, accanto a quello dove è accaduto il taglio. Per quella stessa verità, rendere onore al buono che c’è ancora – e farlo buono vero; alla sua insegna rifare gli indirizzi che avremo da esplorare – e renderli orizzonti veri. Finché un giorno ci accorgeremo della cicatrice sottile di cui sarà anche fatta la nostra pelle, insieme agli altri segni particolari, e saremo semplicemente noi, nell’intero, fatti così. Col tempo, diminuiranno le incisioni e gli agguati al ritorno di questa voce. Alla lunga ognuno avrà l’intero di sé stesso da abitare come un tempio, realizzando di poter dire finalmente di sé e non più d’altro: sono io vero. Tutto vero.

Traboccare

Siamo fatti per traboccare. Tutto è più grande di noi – tutto ciò che conta, almeno. Quando non ci capacitiamo più di una letizia è bello iniziare a traboccare felicità; quando non possiamo più contenere un dolore è brutto traboccare assenza. In entrambi i casi è come risuonare e i corpi è come se li usassimo – o i corpi usassero noi – per ospitare la persistenza di un evento già dato, un gesto ormai compiuto, un suono emesso, un liquido versato. Si distende così in noi, tracimando, un presente che non scade, non finisce. Niente è lasciato alla decisione nostra: quale onda sonora far risuonare, se sarà una letizia o un dolore a farci traboccare. Sappiamo solo che tutto è più grande di noi. Va bene quando siamo piccoli e così, anzi, ci sentiamo pienamente parte del vivo mondo, senza alcun diaframma tra lui e noi, in regime di assoluta identificazione; fa male quando capiamo da grandi che non c’era alcuna promessa, un giorno, di poterlo contenere il mondo vivo, noi stessi. Non possiamo contenere interamente ciò che siamo perché è sempre più grande di noi – se conta veramente – possiamo solo esserne parte. Quello che siamo è più grande di noi, ecco. Rispetto a questo, non ci resta che una cosa: traboccare, risuonare.

Domenico

Domenico era un incisore. Uno dei primi incavi che mi ha lasciato dentro ha un nome tedesco: sitz im leben. Io il tedesco non lo conosco, ma da lui so cosa indica questa espressione. Non ricordo se me ne parlò solo una volta, e tanto bastò a fulminarmi, o se fu un concetto ripetuto in più occasioni, col fervore e la sapienza degli incisori nel passare più volte sulla stessa linea.

Sitz im leben significa “posto nella vita”, in metafora è il luogo che scegli come apertura prospettica sul resto. Ognuno trova il suo sitz im leben dopo una ricerca. Dal momento in cui ti siedi lì, guardi le cose orientando il senso che hanno per te, che vuoi che abbiano, o che lotterai perché lo abbiano. Non era un discorso da adulto a ragazzino: avevo iniziato a frequentare casa sua per un interesse verso la figlia, ma in quel momento non c’entrava niente. Era una confidenza da anima pari, data senza alcun ritorno di interesse, per la sovrabbondanza di una grazia che gli illuminava il sorriso. Un sorriso da trovatore.

Il sitz im leben è il posto in cui scegli di sederti per osservare la vita, diceva, la sedia del tuo essere che non deve più correre dietro mille correnti ma può iniziare finalmente a costruire qualcosa. Quando me ne parlò eravamo davanti alla sua grandissima libreria, piena di volumi di scrittori russi, autori mistici e molti testi di teologia. Una delle cose che trovai subito affascinanti di quest’uomo era che – dopo due specializzazioni in medicina, cinque figli e una carriera avviata – si era iscritto in Teologia e gli mancava una materia. Ancora studia! pensavo.

Avendo appena iniziato l’università, nel pieno smarrimento dei diciannove anni, ero irretito dalla sua figura di ricercatore continuo, dall’idea di coltivare sé stessi per la fioritura di un senso unitario che all’epoca era ciò da cui mi sentivo più lontano. Da noi, in dialetto, si usa l’espressione: quel tizio si è collocato, per indicare – nel bene e nel male – una condizione (materiale oggettiva o di predisposizione intima) di assestamento inamovibile attorno a cui è quasi obbligato a girare il resto delle cose. Quanto desideravo io avere almeno un po’ di quella stabilità! Avere una direzione chiara era un sogno per me che brillavo sì, ma come polvere interstellare alla deriva.

Ora che ho cercato la giusta trascrizione di questa locuzione tedesca, mi accorgo che per una sola vocale la parola “vita” (leben) si differenzia dal verbo “amare” (lieben). Da oltre vent’anni ospito questa figura del Sitz im leben che mi ha inciso Domenico, da entusiasta a entusiasta. Da oltre vent’anni mi chiedo a quale posto potrei dire di aver riservato la seduta del mio essere, per quanto sia possibile a un’indole inquieta come la mia. Credo di poter dire che le ho riservato il posto migliore possibile, quello dell’amare (come processo, azione, verbo; nulla di statico, niente sostantivo, nessun punto di arrivo). Il mio sitz im leben è il lieben.

Lo stesso amare teneva legati, in una condizione che spesso aveva del telepatico, Domenico e Lucia, la figlia che intanto mi è rimasta compagna, sposa, diventando madre a sua volta di un nipotino che è stato l’ultimo pensiero felice di mio suocero. Nel pomeriggio del primo marzo, data in cui dieci anni prima moriva per arresto cardiaco pure Lucio Dalla (un’altra versione di me), poco dopo la mia registrazione al cellulare della canzone Se io fossi un angelo, Domenico ha parlato al telefono con Lucia della febbre che aveva da quattro giorni nostro figlio Arturo.

Aveva già il fiatone, mio suocero, lo sentivo dalla cornetta persino io che stavo davanti a Lucia. Papà, ma che hai? Niente, sto facendo le scale. Ora entro e mi prendo una bottiglietta d’acqua. Lucia parlava di Arturo. Lucetta, non ti preoccupare: a tutto c’è una soluzione. A tutto c’è una soluzione. A tutto c’è una soluzione. Tre volte l’ha ripetuto. Un’esagerazione. La mia sposa non poteva che ironizzare: va bene, papà, ora me lo segno! Tu però, fermati e riprenditi un attimo. Ecco ho preso l’acqua, ora mi siedo. Oh, bravo, dai. Ecco, ah… mi sono seduto. Va bene. Ciao, ciao.

Domenico era un incisore. L’ultima icona che ci ha lasciato è la chiusura di un cerchio; le sue ultime parole in assoluto consegnate alla figlia più lontana; la sovrabbondanza di una rassicurazione per la più recente vita arrivata in famiglia; il gesto a ricalco della prima incisione che mi fece dentro, dando al suo essere il posto che aveva scelto fin dall’inizio, la seduta che ha sempre avuto – e continua ad avere – per tutta la vita: l’amore.

Irraggiungibile

Abbiamo luoghi irraggiungibili per gli altri, dove non andiamo spesso ma che ci aspettano. Sempre. Sono agli antipodi dell’esperienza, fuori dal tempo verso dentro e fuori dal tempo all’infuori, in lontananza. Ogni persona ha la sua via per entrarci. Il genio francese delle lettere, Marcel, raccontò la sua via tirata fin lì dal senso dell’odore. Per me che ora scrivo da quel chiuso, molle e infinito, è una via tracciata dal suono. Ogni volta che vengo qui a nutrirmi del mio sempre, mi chiedo come ho fatto a starne lontano per così tanto. Facevo la vita, eppure qui è il suo oro. Nessuno lo può rubare. Né io posso o voglio portarlo via da qui. Qui sono io che devo tornare e mi faccio tenerezza quando abito il tempo senza nemmeno ricordare l’esistenza di questo grembo, il suo indirizzo in musica. Marcel disse che è proprio questo oblio quasi costante a renderlo sempre inespugnabile per gli altri e, il più delle volte, anche per la versione di noi obbligata al tentativo di una vita. L’altro luogo, quello dal tempo all’infuori, in lontananza, è ancora più difficile da raggiungere perché ha vie sempre diverse. Da lì i poeti afferrano note di lingua mai sentita prima e a volte riescono a farle sentire anche a noi. Ed ecco, vedi, anche lì è sempre questione di. Suono.