Quest’anno molte ville di famiglia non faranno da scenario alle feste dell’ultima notte. E sarà più languido l’abbandono al profumo di zagara per le arance nel vialetto che porta in montagna. Nell’ultimo pomeriggio, lo spiazzo in cima alla scalinata farà cassa toracica ai canti degli alati sugli oleandri e ai passi dei gatti sulle foglie. L’abbandono gremito di memorie sulle ore bambine spese lì a giocare aprirà cerchi nelle vasche del giardino che conosce i segreti della pioggia. Fino all’ultimo secondo della conta, niente romperà la linea continua tra il mare la spiaggia la strada la salita i balconi e il vecchio cancello. Se voci saranno, saranno lontane. I bagliori dei vicini petardi, allo scoccare della guerra contro il tempo, non varcheranno quella soglia: l’aria tra le sbarre ferrose farà scudo ai lampi spettrali, la notte arborea non sarà violata da luci scheletriche, nessun fiore dovrà rendere conto del suo colore, né gatto ridurre la pupilla soffiando ad arco nel traversare dalla giara al vaso cucito nel millennio scorso. Le ville deserte è come se avessero già trovato nel cosmo un altro asse di rotazione, e nella vita delle stelle altra danza per battere all’unisono con l’eterno.
uomo
Senza volto
Ho il corpo stretto in una rete di corde. Fra ottocento anni mi troveranno, mi chiameranno la mummia “senza volto”. Sono morto senza sapere nemmeno cos’è l’impero Inca, nel tempo a cui daranno una misura legata a un prima e un dopo che non conosco. Conosco la mia terra, tra la costa del mare e le montagne aguzze del dio. Mi troveranno in posizione fetale, le mani a coprire il volto, perché è così che noi seppelliamo i fratelli. Mi faranno esami usando magie che non immagino nemmeno per capire a quanti anni sono morto. Non gli servirà certo a intendere come ho vissuto. Troveranno anche queste ceramiche e queste pietre nella tomba scavata dai miei per nascondermi infinite lune. Un mio simile, con cui non so concepire altro legame che i nostri occhi quando guardano il mare, le piante o il cielo, proverà a viaggiare fino a qui e a questo momento risalendo il fiume del tempo, con la fantasia e l’aiuto dei suoi dèi, allontanandosi dal suo tempo per vederlo con la pietà che si deve a un giaguaro tormentato dai suoi stessi morsi. Mi vedrà in tutto lo splendore dell’essere ancora nel suo istante vivo e vero, ancora aperto.
Quasi ogni pena
Il mondo può valere quasi ogni pena,
figlio che nascerai a chiunque
dopo questa attesa
dell’uomo, letargo al contrario
in primavera. Le tane si svuotano
e uno dal dormiveglia
in balcone ha avvistato animali
che prima non c’erano
– nessuno di loro si ferma
a cantare il prodigio del glicine in fiore,
tutti si chiedono invece dove sono
finiti i bambini. Ma loro
giocano, è vero, anche nel sonno
rovina amorosa di tutti
i genitori che ora stiamo diventando.
Dammi
Dammi il corpo modulare delle piante, organismi indifferenti ai predatori fino al 95 per cento della superficie razziata. Dammi la fisiologia colonica delle piante, il loro non essere individui basati su parti del corpo insostituibili. Dammi la capacità generativa delle piante, di luce in luce verde vita per loro stesse e casa vivente a innumeri esseri di corsa tra le foglie o di stanza tra le radici. Dammi l’intelligenza evolutiva delle piante, che sentono buono ciò che è buono per la vita e cattivo ciò che vero è cattivo per la vita. Dammi la misura grata delle piante, identico presidio della vita in un vaso minimo di balcone come nei boschi di traverso alle montagne. Dammi la fratellanza concreta delle piante, che non si uccidono né si accusano o lottano per avere il potere una sull’altra. Comunicano, si muovono, nutrono e reagiscono all’ambiente donandosi tutto a vicenda per via di creature alate o terrestri o del vento e della pioggia se manca luce, nel tempo lentissimo che l’uomo non vede, nell’equilibrio che non sa mantenere, nell’armonia che mai sa farsi bastare. Fammi dire per 95 volte mi hanno spezzato, e quella successiva fammi ricoprire la terra di rami fiori e figli miei da oceano a oceano mare per sempre.
Fiamme
Quale vita senza incendio? Chi non sa la paura delle certezze crollate, la violenza privata dello stare al mondo? Ieri le fiamme hanno divorato il bosco di querce che dal milleduecento reggeva il tetto a Nostra Signora di Parigi. Le illuminazioni rosseggiano imprimendosi in fila nella memoria: l’altro ieri era l’orlo infuocato del buco nero, ieri la guglia ardente del monumento. La vita però non è un museo dal clima a tenuta stagna. Siamo fatti di temporali e schiarite, i primi senza riparo, le seconde pronte all’amo. Il sole-pesce guizza nel celeste, ma è vero: al vento molte lenze non superano gli aquiloni. Finché una mattina, il tiro alla schiarita, ormai fatto anche solo per gioco, andrà oltre la carta e allora mi vedrai tornare a casa con la stella. Sarà un giorno come gli altri. Le fiamme di ieri non saranno più maledette, fonderanno anzi la nostra storia dando forma smagliante alla buona reinvenzione di noi. Negli occhi avremo un furore, misto di ottusa fiducia e gioco fine a se stesso, compagnia mai respinta del tutto e desiderio di vivere insieme le bufere, penetrare la paura scarnificante e la solitudine fino al loro fondo bucato. Al bacio della stagione per il feroce rinnovo della vita, unico possibile epilogo in natura, e in Nostra Natura di Uomini.
Metà sopportazione
Il mare è salato, il sudore è salato. Il mare è il sudore della Terra e aumenta sempre di più: le acque già iniziano a coprire le spiagge nel maggese letale dei ghiacci che si riducono ai poli. La Terra fatica, da madre cerca ancora di contenere il nostro do re mi, ma canterà molto più a lungo di noi: cinque miliardi di anni le restano, finché dura il ciclo del sole che è arrivato a metà. Metà sopportazione. Poi la stella diventerà rossa – l’ho letto giorni fa – e questo granello celeste che ci dà respiro, e noi glielo togliamo, si aggiungerà alla polvere cosmica nelle anse del tempo. Avverrà una domenica perché, una volta iniziato, il conto è reperibile all’infinito. Non ci saranno più uomini a contare, ma sarà certo domenica. Una domenica come questa, il mare annegherà il cuore superstite del deserto africano. E noi saremo finalmente chiusi, completi in una storia fatta di luce solare, terra fin quando ce n’era, vita cosiddetta intelligente e altra ancora migliore: tra le rovine, vita di alberi in fiore.
Scandalo
Non c’è pornografia o altra indecenza che tenga, il mio unico vero scandalo è la morte. La morte di chi uccide, la morte di chi è ucciso. Chi si scandalizza, ho sempre detto agli amici, lo fa perché non conosce abbastanza l’oggetto che ferisce la sua piccola morale, le dinamiche, le relazioni tra le persone protagoniste del suo scandalo, le loro motivazioni, il loro vissuto. Non c’è scandalo nell’omosessualità, nessuna vergogna nell’erotismo più estremo, niente di scabroso nella debolezza di un uomo che tradisce il suo mandato per delirio di potere o per eccesso di amore, e nemmeno nella bestemmia usata come puro intercalare da chi non riesce a stare al centro di se stesso. Niente mi fa stracciare le vesti, se non la morte inflitta o ricevuta. Inavvicinabile inconoscibile immotivabile, la morte data al simile è puro negarsi, trionfo della solitudine maligna, assurda volontà di rinnovare il primo anatema della nostra specie. Oggi, per esempio, mi chiedo come può occuparsi di qualunque altra cosa il cielo, illuminare i giardini o diluviare a novembre senza aver prima incenerito l’inferno libico, senza averlo ancora fatto sparire dalla faccia della terra.
Specchio
E gli alberi sono belli e il cielo a tinte pastello, e il mare impetuoso e i monti, vestiti di neve o non ti scordar di me. E può essere bello vero anche un mobile o una scarpa, un paesaggio islandese e un monumento vicino casa, e tutto, tutto quello che gli occhi – se pur non bello – vedono tanto splendido da provarne invidia. E può essere bella una gatta o uno strumento musicale per com’è, bello da guardare muto e dire è perfetto, nella forma e nello scopo, maledetti noi che manchiamo di quella perfezione, nella forma e nello scopo. E tutto finirebbe qui, con la cattiva considerazione di noi stessi, nata per difetto dall’aria meravigliosa che ci nutre ogni giorno, se solo non fossimo noi gli unici, gli imperfetti, ad avere la qualità essenziale perché il mondo sia tanto bello o anche perfettamente brutto: la qualità emotiva e un alito che non sa restare chiuso in bocca, né dietro gli occhi o dentro le orecchie, e non si tiene mai dall’investire ogni forma del creato si trovi alla massima portata del nostro riflesso.
Epicedio al paesaggio
Ha impiegato duemila anni per crescere e cinque ore per morire. Ucciso dal fuoco. Non da un incendio: proprio da un fuoco che gli hanno appiccato due notti fa dentro al tronco – piromani con il cherosene – per arroventargli il cuore, braci fino a 800 gradi, e infine trasformarlo in un gigantesco mucchio di carbone: c’era sempre stato, non ci sarà mai più. Era l’ulivo più antico d’Europa: 22 metri di altezza, 8 di circonferenza, rami come un ombrello verde a quattro piani d’altezza. Era un organismo vivente di perfezione assoluta e longevità minerale. Nella sua solitudine di respiro e vita è stato capace di attraversare l’immensità del tempo, 8 mila intere stagioni, i temporali, la siccità, il gelo, i mutamenti del paesaggio e degli uomini, le guerre, le inondazioni. Qualunque cataclisma, ma non il nostro presente. Continua a leggere “Epicedio al paesaggio”
Insignificante
L’uomo non significa nulla, anzi, la sua umanità si annida proprio nelle errate inferenze degli altri. Sei un tipo scorbutico? Significa che non sei stato tu a nutrire il gattino che ha impietosito gli altri passivi condòmini. Leggi tanti libri e dicono che il cervello ti cammina? Significa che non può piacerti l’ultima canzone Arisa. Sei contento di aver votato 5 Stelle alle ultime e ormai lontane elezioni? Significa che devi difendere sempre Grillo quando spara cazzate e non ridere mai se gli sfottono i parlamentari. E così via. Ma il segno è: essere se stessi dappertutto, come disse Piero Gobetti. Sarai un’anima trasversale, feconda, e desterai sospetti. La contraddittorietà e l’incoerenza che ti imputeranno nasconderà solo un eccesso di semplificazione. Mentre l’uomo autentico è semplice ma non semplificabile. E non significa nulla, l’uomo, se per senso intendiamo la descrizione di una forma necessaria e prevedibile di idiosincrasie e innamoramenti, persino futuri; un profilo, ecco, come quelli dei consumatori, dei nemici dei servizi segreti e – da dieci anni – delle persone sui social. L’uomo autentico è insignificante e lo sa: non si dà importanza da solo e ha il cuore libero di spaziare.