Ho passato una vita a fare le mosse
e continuerò a farle
finché avrò questa casa del corpo
e mentre facevo le mosse
poteva accendersi un fuoco diverso
è stata prima una voce
di figlio, poi una freccia che gridava
tirata nel vuoto e ora
è la mossa del padre che mi fa
ruotare senza sapere mai
quando sarà che la parola padre
uscirà dal mio corpo
con tutto il calore che dicono
essa abbia avuto fin
dalle origini che alitarono il mondo.
verità
Fuggire via nudi
Oggi abbiamo letto la passione secondo Marco, testo tanto lungo da non lasciar spazio all’abituale omelia: prima benedizione. Un testo tanto denso da offrire mille appigli per riflessioni di ogni genere: seconda benedizione. Il totale mi ha commosso come sempre, ma è un dettaglio ad avermi rapito. Spesso non si fa caso ai dettagli nei vangeli, piccole descrizioni tra eventi enormi e ben più memorabili. Io invece mi ci rompo la testa perché è roba pur presente e degna di stare lì, secondo la volontà del narratore (volendo riassumere in un solo nome un’intera tradizione orale, quindi teoricamente ancor più severa di quanto può esserlo un singolo individuo, rispetto a cosa tramandare e cosa no). Il dettaglio di oggi, il particolare che un’intera tradizione ha voluto salvare, si trova alla fine dell’arresto di Gesù, nel Getsemani. Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
Questa figura misteriosa si distingue dagli altri fuggiaschi per due elementi: per un attimo viene afferrato; poi fugge nudo. Quale decisione poetica c’è dietro questi due elementi? La mancanza di studi teologici lascia la fantasia tutta spalancata sulle spiegazioni possibili. Cosa significa essere afferrati, anche solo per un attimo? Cosa significa fuggire via nudi? E c’è un legame tra le due cose? La nudità è forse l’unica condizione possibile di fuga dopo essere stati afferrati? E insieme, a ritroso: perché questo ragazzo si trovava lì? Perché era avvolto solo da un lenzuolo? Sui precedenti che lo condussero lì in quelle condizioni non posso dire granché, senza il giusto tempo e i dovuti riferimenti. Qualcosa però si può dire sull’episodio in sé. Il ragazzo viene afferrato perché resta un attimo più di tutti accanto al Gesù ormai fallito; più dei seguaci strettissimi, più di quanto saprebbe fare oggi chiunque. La Storia così gli mette addosso gli artigli, come stava facendo col rabbì tradito. Il peso è insostenibile e, per fuggire, il ragazzo deve abbandonare il lenzuolo che lo copriva. La sindone di questo morto ambulante che si era attardato al fianco di Gesù è tolta allora, come simbolo di una resurrezione che lo riporta allo stato di purezza adamitica? Oppure, al contrario, l’insostenibile vicinanza al Gesù fallito gli ha fatto perdere l’elemento candido, aprendolo alla fuga adulta come dopo il genesiaco assaggio dall’albero della conoscenza?
Se la prima interpretazione sminuisce il valore della fuga, che invece conta moltissimo perché assimila infine il ragazzo a tutti gli altri, il secondo tentativo restituisce senso a entrambi gli aspetti: la fuga e la nudità. Fuga, dunque, come reazione all’insostenibile conoscenza della vera identità di Gesù che comprendeva la cruna di un fallimento. D’altra parte, non si può dire che gli apostoli fuggiti non conoscessero l’identità di Gesù. Il fatto è che non se ne rendevano conto, come poi faranno dopo la resurrezione. Questo ragazzo invece si è reso conto davvero di chi è Gesù, nel momento più difficile: questa è la differenza tra lui e gli altri fuggiaschi ancora vestiti. Se questo è vero, il simbolo della nudità può comprendere entrambe le interpretazioni delineate prima: dopo aver capito il passaggio obbligato di Cristo per la cruna, restare dentro la Storia è insostenibile per questo ragazzo, che però resuscita davanti alla scoperta della vera cifra di Gesù.
Eccolo allora il nostro che, quasi personificando in modo liberatorio il desiderio di Gesù sull’allontanamento del calice, prefigura un Adamo che rinasce e fa il percorso inverso al primo uomo: la vera conoscenza, prima che si compia la resurrezione, lo caccia fuori dalla Storia e lo fa tornare così com’era uscito, di corsa, nell’altro giardino dove si sta nudi e non ci sono soltanto ulivi. Continui pure la Storia il suo corso, deviato per sempre da un apparente fallito, eterno fuorilegge dello spirito davanti a ogni dottrina.
Fuorilegge
Nel cunto di oggi a messa Yeshua è presentato al tempio dai genitori per adempiere ogni cosa secondo la Legge. Lo riconosce un uomo nel cui nome è segnato l’ascolto tra Dio e la Storia. Mi piace credere che Simeone riconobbe nel bambino il vero liberatore, non quello che deluse le aspettative di Giovanni. Voglio credere che l’uomo giusto capì di non avere davanti un ribelle politico ma un fuorilegge spirituale: il volto di chi spezza ogni istituto creato per dividere i buoni dai cattivi, gli autorizzati dai non autorizzati, chi può fare la comunione e chi no, chi posso amare e chi no, chi può sposarsi e chi no per servire la comunità nel suo nome. Yeshua fu l’ultimo costretto a piegarsi alla legge – non per seguirla ma per compierla, esaurire cioè ogni tradizione portando il necessario da questa parte, nel divenire. Senza saperlo, i suoi genitori depongono così nel tempio una bomba a orologeria. Distruggerà ogni residua schiavitù dell’uomo rispetto al sabato, sostituendo a dei semplici mattoni il sangue e la carne di ciascuno, proprietà interdetta alla gestione di amministratori esterni. Contraddizione di una legge che impone la fine delle norme; spada nell’anima prevaricatrice che millanti ispirazione divina. La sua nascita aveva già convocato con i magi la sapienza orientale, notoriamente fondata sul principio della vitalità più che su quello della verità: deporre l’intelligenza che separa ogni cosa, scegliendo l’ascolto del modo in cui la respirazione passa nel tra del corpo mantenendolo vivo e animato. Su quella dedita alla verità e alla direzione in cui vado, cresca allora e si fortifichi in me più l’attenzione alla vitalità e al modo in cui mi evolvo, riverbero continuo della luce dai margini al centro, dal centro ai margini.
Filo
Prima di tutti gli alfabeti scritti o dipinti, c’era già il mondo sonoro intorno e la materia e mille tipi malleabili di filamenti vegetali, a partire dalla semplice erba smeralda, che l’uomo piegava per allacciare le cose realizzando nodi che, se insoddisfatto, poteva sempre riportare alla linea dritta originaria in cui riconoscere ancora la natura e, in quel filo verde, un pezzo dell’universo contenitore, memento della sua condizione filiale. Così immagino i paragrafi che accumulo piano nel tempo, se dubito del loro valore: che sia sempre possibile spiegare gli angoli delle lettere che li compongono e ricavarne chilometri di filo da risalire per trovare l’uscita dal mio labirinto e riveder le stelle nella pianura dei miei giorni senza parola scritta, fatti di verità fisica e ben altro linguaggio che quello alfabetico; solo fiato, sguardi, mani, silenzi e ogni altra materia sonora che poi proverò di nuovo ad allacciare – frammenti a miriadi – del mio piccolo universo.
Uno
Uno ha detto: la vita è troppo bella per stare fermi e non fare tante belle cose. Un altro ha detto: la vita è troppo bella per fare qualcosa e distrarci dalla sua bellezza. Io dico, lascia che uno si illuda di fare qualcosa e un altro si convinca di essere vivo: Dio ha inciso la parola uomo sull’albero cresciuto dalla pioggia, inutile chiedere altro (la pietra non ha parlato mai). Uno è il numero della verità.