Quello che sta dietro il sole prima non lo vedevo, ma ho passato un paio di stretti sul canto delle sirene alla facilità dell’abbandono. E sono caduto, nessuno mi aveva legato. In qualche modo sono tornato, ma non sono più come ho iniziato. Per vedere cosa c’è dietro il sole l’anima si trasforma. C’è un momento in cui la distanza è giusta, la luce ti fa il pieno di grazia, il calore è un guanto sulla pelle, non devi nemmeno socchiudere gli occhi. Ma non smetti di andare avanti. Allora succede come al foglio che si accartoccia e speri che un lembo fluttuando arrivi dietro la stella ancora integro, benché annerito su tutto il perimetro. Quel nero che ti circonda è la porta aperta sull’altra parte. Così arrivi dietro il sole e vedi che esiste luce senza rimbalzo celeste o atmosfera che la espanda per rinnovare la creazione. Esiste luce che non dà vita e si perde nel vuoto che ospita la sterminata materia alla deriva nel buio. Volevi sapere cosa c’è dietro il sole e ora consumi il rimorso più amaro: ti sei avvicinato troppo e hai esaudito il desiderio, passando dall’altra parte. Il varco resta aperto, si può benissimo tornare indietro – se parlo è perché non sono rimasto lì. Ma da allora, anche nel giorno più tiepido e gentile, io fatico a ignorare la gigantesca pupilla nera che ho visto dietro il sole.
viaggio
La cancellata
Settembre, tempo dell’occasione, soglia molle tra due stagioni, avvicendarsi di nostalgia del vivere all’aperto e immaginazione dell’anno a venire. Il nono mese invita a spingere fuori qualcosa di nuovo, generato infine dal periodo meno strutturato di tutto l’anno. Sembra questo il mese più in linea con la gomma che ha cancellato nei molti appena trascorsi tante parole a noi familiari, lasciandoci l’incertezza di un foglio quasi tutto bianco. Sento di avere i mezzi per scrivere una vita che valga ancora e anzi più di prima, conferma delle mutazioni avvenute e ancora da esplorare. Credo di avere salvato un paio dei vecchi strumenti, e certo ne ho uno nuovissimo benché ad oggi tutto da imparare: un futuro appena nato. Per inventare di nuovo ogni cosa, chiunque dovrà volersi e volere. Volersi bene e voler bene, non c’è altro in gioco. Sarà la prima cosa da tradurre sul foglio nuovo, portandola da questa parte della vita accecante come il sole che rimbalza sulla carta bianca, vuota e senza macchia: la “cancellata” di settembre.
Islanda
Islanda, gelata insonnia del sole, ai primi forni di giugno sogno il tuo invito a stringere la mia compagna nel giorno immobile delle volpi artiche e degli angeli. Lontano dai bollori sudici del mezzogiorno, in te spoglio di presunzione, senza commento o allarme che non sia la vicinanza di un orso o l’arrivo di un temporale. La tua nudità mi chiama, e la minuscola vita umana rispetto al paesaggio, le città fantasma inghiottite dalla natura corporea, la nera scogliera di Reynisfjara, la tua infinita lezione. Orecchio teso alla voce delle balene, in bilico sulla frattura visibile della placca terrestre, rifaccio i passi dell’Omero di Palermo in Baires, che ti cantò a sinonimo di felicità. Sono già venuto alla tua custodia, non solo in questo sogno, ma nei disegni di un amico, in alcuni versi composti una notte, nella musica estranea dei Sigur Rós e di Bjork, negli spazi illibati della mia meraviglia. Islanda mancante, meta, altra metà della mela, controcanto alla mia isola madre.
Le esatte successioni
Luna quasi piena contro l’azzurro terso della sera sul bosco davanti casa. Il sole basso taglia la superficie della roccia ancor più su esaltando facce di pietra rosa e alterne conche buie tra uno scheggione e l’altro del gruppo Sella. Gli uccelli in coro volano a spirali sui tetti di legno e ardesia dei granai. La luce continua a salire, toccherà alla croda lontana di un’altra valle il premio dell’ultimo sole dolomitico. Da qui si assiste alla danza dei sassi immobili che girano intorno alla nostra stella. Il vento oggi ha dissolto i banchi nebbiosi da tutta l’alta badia aprendo la vista all’innumerabile famiglia che brillerà stanotte sui sentieri di nuovo tornati alle bestie. Cervi, caprioli, camosci, scoiattoli, marmotte, alpaca, antilopi e altre forme viventi suoneranno i loro passi nella cavea dei larici che abbiamo attraversato stamattina – siamo scesi dal sasso della croce bevendo i ruscelli sulle canalette ricavate dai tronchi prossimi ai mulini in disuso. I camini qui fumano anche d’estate e sono le cucine dei vecchi rifugi che preparano ricette antiche per la cena dei camminatori. Il termometro è sceso sotto i quattordici gradi e prima di uscire all’aperto si beve un brulé di mele. Nessuno, pare, disturberà mai le esatte successioni di questo reame.
Catalogo
Forse uno dei momenti più felici dell’anno, per chi può vantare la puntualità della sua ricorrenza, è la gustosa scelta dei libri da portare in montagna e farci l’amore al ritorno da una passeggiata o nelle ore costrette in casa da un temporale. Sarei felice un giorno di entrare come autore in questo intimo catalogo di chi parte in estate per i boschi, in cerca di aria più fresca e pulita. Quest’anno il mio elenco annovera il fosco Cesare Pavese (La bella estate), il silvestre Dino Buzzati (Bàrnabo delle montagne), in costante compagnia alata con Giacomo Leopardi (Canti) – per parlare degli scriventi nella nostra lingua. Loro infatti staranno in valigia accanto a Thomas Mann (La montagna incantata), Marguerite Yourcenar (Fuochi), in costante compagnia alata con Maria Zambrano (Chiari del bosco). Perché ci sono libri da leggere o da finire di leggere, e poi ci sono libri inconsumabili, le compagnie alate che ardono di presenza, i vecchi maestri diventati ormai cari amici a cui tornare, sicuri di trovare conforto e – nelle stesse pagine – sempre nuove chiavi di lettura. Nulla di nuovo, lo so. Ma che gioia: esagerata.
Titani
L’alba dei tempi nostri corrispose all’ultima fuga dei titani che al nord, bersagliati dalle comete, per non cadere nello sprofondo si aggrapparono alla Scandinavia, graffiando il fronte occidentale della penisola e aprendo così nel mare i fiordi che noi oggi visitiamo, attratti dall’idea di toccare la fine del mondo, il nostro limite del vivibile antistante la calotta polare. I titani non riuscirono a salvarsi e scivolarono sulle pareti curve del globo terrestre. Qualcosa del loro spirito, tuttavia, entrò nel patrimonio dei Sami, i nomadi lapponi che tuttora ignorano i confini tra Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia seguendo i pascoli per le loro renne o prestandosi come guide ai viaggiatori: l’eroismo inciso nelle rupi di Alta, dove si vedono i primi uomini armati di arco cacciare le alci e gli orsi sui fiumi a bordo di lunghe canoe, eredità titanica ravvisabile nella fattura delle attuali gallerie sottomarine che collegano certe isole delle Lofoten, da Svolvær ad Å; il carattere solitario e la decina di parole al massimo che due amici in sosta dopo un giorno di cammino si scambiano, colmando il silenzio rimanente col sincronico stupore per il verde chiaro che accende i boschi al primo raggio di sole e muta le prospettive; l’idea di fondo alla loro vita spartana, per cui nessuna sfida degli elementi alla sopravvivenza è impossibile da vincere – dal gelo artico dell’inverno offeso da lunghi mesi di buio costante, alle distanze infinite tra un villaggio e l’altro che le asperità del paesaggio isolano nel dominio assoluto della natura; la tenacia con cui racimolano le scorte nella stagione della pesca, inseguendo le balene sotto l’occhio delle aquile marine e lasciando essiccare i merluzzi alle finestre delle case geometriche o agli immensi stenditoi di legno che campeggiano sulle rocce e gli scogli davanti alle baie. Riservati ma attenti al rispetto di ogni etnia, genere e culto religioso; solitari ma non individualisti, e ancora poco allenati alla finta cortesia che si deve ai turisti vogliosi di lusso e comodità; fieri e autonomi, invincibili ma fragili se esposti a temperature più alte dei venticinque gradi; semplici e lineari, essenziali quasi fino alla noia, per chi non conosce come loro il verbo sciamanico della natura immensa; gli abitanti del nord vivono ancora il tempo umano e lento della minoranza, al passo antico dei titani.
Inizio
Inizio a tendermi come un arco, per il lancio che avverrà domani verso ora di pranzo: la scocca mi userà forza sufficiente (spero) per atterrare in Norvegia. In serata, dopo cena, faremo un’escursione a Capo Nord. Ulivi, gelsi, cipressi, pini, palme, oleandri e ogni altro spirito verde che risponde sempre al mio saluto prima di andare a letto, non ne vedremo al sole di mezzanotte. Non ci sarà nulla di questo, saremo davvero spostati di pianeta. Staremo a precipizio su una falesia nera di trecento metri alta sul mar glaciale artico. Lo scrivo e inizio già a captare questa bellezza diversa, a prenderne la forma aliena. Lo scrivo e inizio già a contemplare il bianco foglio di cui ho bisogno dopo il forte vivere degli ultimi mesi. Non porterò nessun libro in questo viaggio, sarà la natura sublime e ultima a leggermi dentro. Tornerà poi l’estate familiare e il paesaggio fatto di sabbia, grilli e vigne, come ogni anno. Ma sarà dopo questo passaggio a nord, dopo questo ascolto in purezza, questo inizio che stasera mi costa una corona di tremori.
Viatico (a un’amica)
Viaggio
Il motivo del viaggiatore non è scoprire come sono fatti altri posti, ma prima di tutto assicurarsi che ci siano davvero, che il mondo fuori portata esista davvero e alla parola Amsterdam corrisponda un cielo, dei marciapiedi e tante vite veramente. Nessuna immagine, fissa o in movimento, ci darà mai la conoscenza e la certezza che viene da una camminata. Che poi, nei posti “altri”, ci siano usi e culture diverse dalle nostre è solo, credetemi, un corollario alla terra che arriva fin lì. E il viaggiatore che torna può solo testimoniarlo coi suoi occhi – che la terra fin lì ci arriva davvero – perché qualunque parola riporti ai compagni rimasti, anche quella non sarebbe una strada. Come non lo è questa mia, per quanto gli amici possano vedere le foto e annuire e immaginare di capire. Sempre meno, capire; sempre più, tornare.
C’è una solitudine
C’è una solitudine che mi prende spesso prima di imbarcarmi in aereo per un viaggio, legata al mio terrore di essere in volo, che parta da solo o in compagnia. È uno stato buono a nulla, puramente vuoto e non proficuo alla nascita di alcun sentimento di unione col mondo, perciò anche questa nota è zero. O forse, paura. Domani per due ore e mezza sarò un volo verso il mare del Nord e stanotte sentirò crescere più forti ai piedi le radici che mi verranno strappate dal suolo. Dormirò male pensando all’impossibilità di respirare sopra le nubi, oltre le Alpi e sui fiumi, fino ai canali di una città medievale che oggi va in bicicletta, ricorda una bimba che scrisse un diario e un infelice morto senza un orecchio. Faccio parte delle persone che conoscono la solitudine formosa, ma non è quella di stasera. E lo scrivo ora, programmando l’uscita del post a quando sarò ancora lontano e analogico, in viaggio senza potermi connettere, né volerlo fare. Sarà la mia scia, visibile in dolce differita come una lettera d’altri tempi. Una volta, sentendo l’annuncio dopo l’atterraggio – fate attenzione quando aprite le cappelliere sopra di voi – ho immaginato che tutti i trolley e gli zaini dei passeggeri attoniti si fossero trasformati in cappelli, dando finalmente ragione al nome di quegli scomparti. Io, quando viaggio, lo porto sempre il cappello. Ce l’avrò anche in questo momento, che sarò disperso in qualche stradina coi piedi per terra e il naso all’insù, dove si può respirare. Tutto.