Per tutte le vite

«Non cambierà niente». Ci sono bugie dolcissime. Ma la verità è che siamo nati per rinascere tante volte. Passati al resto del tempo che ci stacca dall’infanzia, quante volte si può nascere in una sola vita? Un istinto, io credo, guida chi lo sa ascoltare tra le correnti del dopo, le sirene del resto che ci aspetta. Il resto in cui siamo già, se condivido questa lunga età adulta con voi. E si deve cercare una grandezza morale nella fedeltà a sé stessi, non come forma di tenacia inflessibile, ma come fiducia morbida di non perdersi al successivo cambiamento. Rimane immutato l’istinto e una memoria delle cose apprese nel tempo che era la nostra alba. Fiducia e fedeltà fanno la grandezza di un’anima che abbraccia la resa davanti ai misteri più grandi. Tutto diventa stagione in un ciclo che però non si ripete e vede in noi compiersi un anno senza fine, bellissimo per forza. Senza tema di cadere nella febbre della tenerezza finché respiriamo, né paura di rimpiangere gli antenati che andavano in giro con le mani macchiate di inchiostro. Depositari delle loro mutazioni sulla pagina, generosi ospiti della muta che lasciavano agli altri per andare incontro al dopo, un’altra nascita. Non cambierà niente. Abbracciamo i punti di non ritorno per non dimenticarli mai, scrivendoli sul nostro volto nel buio infastidito dai nuovi inizi. Nuovi inizi per sempre. Per tutte le vite.

Sara

Sei passata. Non hai più solitudine, non hai più occasioni perdute, né più estraneità al mondo. Passata, hai finito di aspettare, hai finito di ricordare, ma fino alla fine hai conosciuto altra vita che ti continua: fino alla fine hai giocato con mio figlio, bambino nuovo, tu, bambina sempre, tu sempre figlia. Fuori dal mistero che ognuno è per gli altri, ti sei data alla cura dei tuoi cari e alle lettere, ai chilometri in auto per insegnare, all’amicizia sui gradini di un teatro greco, al ristoro del mare di Capo d’Orlando, al ripasso di rime e novelle, tu, votata all’amaro amore ideale per l’amore che ora però, davvero infine, sei. Sereno Amore, Risorgi Adesso. Benedici I Suoi Adorati Nipoti, Tenerezza Infinita. La camera dove ti hanno portata sta in via Uditore, dietro la tua ultima residenza di donna autonoma, dove c’è l’istituto Verga. Quando sono tornato alla macchina dopo l’ultimo saluto, la strada era piena di bambini che uscivano da scuola dando la mano ai genitori. Anche tu ora gli dai la mano, lasciando nella nostra un’eredità di cose semplici e rare. Com’era parlare con te.

Arriva

Arriva l’ultimo mese, è qui, dicembre, ora. Ho già iniziato a collezionare pensieri positivi per il bagaglio spirituale che servirà. Il viaggio è impegnativo, quello tra gli affetti più cari, da cui ho staccato il quotidiano migrando per lavoro tanti anni fa. L’avrei staccato ugualmente, forse, per l’istinto che chiama alcuni a crearsi una retroguardia amorosa a cui pensare o tornare nei momenti più duri sulla prima linea. Le risorse per fortuna non mancano: tra libri e maglioni porterò giù a rinforzo morale (mio e altrui) due belle notizie sulla mia attività e l’impazienza di conoscere una nipote nata a sant’Andrea di fine novembre. Mi serviranno pure le belle cose che troverò già lì ad aspettarmi, per rispondere ai nervosi agguati del dolore, previsti per motivi strutturali e contingenti. Ma come dice un’amica Avvento è una parola bellissima. L’attesa di qualcuno che viene è un’esperienza bellissima. Così, se alcuni diletti è anche me che aspettano, il mio ritorno – come dicono dalla loro prospettiva – io metto nel bagaglio anche il ringraziamento d’essere motivo di bellezza per alcuni, oggetto di un’attesa. A mia volta, aspetto l’arrivo di tanti abbracci, una pronuncia delle cose, l’odore d’arancia e manderino, la vista del mare, l’antico ritrovo di una villa, la possibilità di dire “a stasera” e altra improvvisata gioia senza scorie. Ci sarà tutto questo insieme agli agguati, è la vita e, credo anche, un’accettabile definizione di felicità. Quello che mi fa sentire più a casa forse la notte sul mare, all’andata o al ritorno, tra due sponde del Sud.

Un altro motivo

Gli esami del mondo non finiscono mai ma io oggi consegno il foglio bianco con dentro più me stesso di ogni merito o risposta pretesi, che guardo fuori dalla finestra i gesti del paninaro sul marciapiede alle prese col banchetto per l’intervallo delle 11:15, che penso alla grande palestra ancora vuota dove all’ultima ora vedrò la ragazza dai capelli rossi e le dirò: oggi c’era il tema di fine trimestre ma io sono venuto qui a scuola per un altro motivo.

Lidl

Io quando non c’è niente che può più rendervi felici e ormai è pomeriggio vi dico di prendere l’auto e andare a fare la spesa della vita, quella per riempire la dispensa, i cosiddetti rifornimenti. Tornerete a casa, meglio se dopo avere cercato posteggio per un po’, con un senso di riempimento – se non altro visivo – della metaforica pancia che prima era vuota e dava più eco all’infelicità. Adesso che la spesa è fatta siete pieni di una cosa indubbiamente utile, avete fatto una cosa pratica, avete riempito il tempo pensando a un bisogno primario e non agli astratti furori che vi infelicitavano. Avete avuto, poi, la tacita conferma di disporre ancora di un po’ di soldi nel conto, almeno quelli utili a non essere infelici per motivi “ultimi”: conferma periferica di avere ancora una casa da raggiungere, un frigorifero da riempire, una cena a cui pensare, dei gesti fisici e una cura del tempo (se non altro quella dei tempi di cottura) in cui concentrarvi, mentre piano arriva la sera e l’ora di andare a dormire. Questo è un uomo, penserete con la testa sul cuscino ricordando un doloroso allarme sui minimi estremi della dignità umana: io sono un uomo, io sono una donna. La dignitosa conferma farà evaporare gli ultimi fumi degli astratti furori. La notte, sognerete una forma qualunque di ringraziamento.

Deserti

Avanzano i deserti: è la vita adulta com’è sempre stata, o una descrizione dell’oggi per tutte le età? Gli anni aumentano la siccità e l’attuale situazione climatica è perfetta per descrivere l’immenso fossato che il tempo ci scava attorno da adulti – e sempre di più. Magari i ventenni di oggi hanno ancora un fiume di meraviglia a due passi e una rigogliosa ombra di relazioni alla loro portata. Spero che la retorica dei bei vecchi tempi andati sia solo una stronzata – come ho voluto credere finora – e l’avanzata dei deserti valga solo per me; spero che non sia verità anche per i più giovani, spero che vivano tra loro belle cose impossibili per me da immaginare. Perché crescere somiglia all’inesorabile spoliazione degli alberi intorno, e tu bruci al sole senza riparo; somiglia al cuneo salino che invade la foce seccando chilometri di entroterra, e tu sei flora fauna e raccolto compromessi. Somiglia, crescere, a un bagaglio sempre più pesante di consolazioni. Ieri, per esempio, ho visto tre pappagalli verdi volare da un balcone a un albero mentre tornavo a casa e ho pensato a Gino Strada: c’è un suo libro con questo titolo, non l’ho mai letto, Roma è piena di pappagalli verdi, ma quel volo mi ha fatto pensare a lui, a ciò che rappresentava e abbiamo avuto la fortuna di conoscere, perché avevo bisogno di pace. Oggi, altro esempio, nella mia ora di fila alle poste, ho rifiutato l’invito a entrare in un tipico litigio fra poveri facendo il populista, perché avevo bisogno di indicare chi ha una colpa più grande: quella situazione non si doveva a nessuno dei presenti, ho detto, ho smesso di prendermela con chi soffre i miei stessi disservizi, basta massacrarci fra noi! Basta, tifare il cattivo meno cattivo da sostenere per sentirsi dalla parte giusta; basta, essere stupiti dal consumismo bellico americano che ci trascina nel baratro. Io vedo ovunque gente stanca. Io pure sono stanca. E non c’entrano le nostre fatiche personali, è una stanchezza globale. L’ingiustizia è istituzionalizzata e gli accordi sporchi si fanno ormai stringendo la mano ai dittatori in diretta TV. L’impotenza ci sfinisce. Sia che ne siamo consapevoli sia che non lo siamo. Questo dice Giulia, un’amica che ho la fortuna di conoscere e riconoscere oasi nel deserto dell’età. Che avanza come una catastrofe, cara catastrofe.

In realtà ero bella

Elsa ogni tanto ci portava in Paradiso. E a chi chiedeva: «A me mi porti?» «No», lei subito, decisa, «Non c’entri niente tu. Tu non ci puoi venire in Paradiso». «E allora chi ci porti?» insistevano i delusi, «Patrizia ce la porti?» E Elsa: «Sí, Patrizia può venire in Paradiso».
Ah, come mi piaceva questo andare facile, sicuro, senza dover competere! Però, per non offendere, facevo la distratta coi respinti. Anche se poi, tra discussione e dubbi, un po’ alla volta venivano alla fine quasi tutti assunti. Ma io – a parte i gatti, che stavano già lí ad aspettarci – ero la prima, sempre, la prescelta. Non mi chiedevo il motivo di questa preferenza: da un lato mi pareva naturale, dall’altro pensavo fosse meglio non mettersi a indagare. Del resto, io a quei a quei tempi venivo ammessa ovunque: ai pranzi, al cinema, a teatro, andavo sempre bene con chiunque. Neanche di questo mi chiedevo la ragione, forse per questo avevo l’ammissione.
In quanto al Paradiso, a figurarmelo, io non vedevo altro che il prato dove stavo, come un vassoio che ci portasse in alto, un po’ inclinati e senza piú le sedie, per cui ci si arrangiava poco comodamente sopra l’erba. Un’altra differenza era con gli alberi, molto piccoli, qui, da miniatura, e con le chiome composte e tondeggianti. E poi c’erano i gatti, lenti, sul fondale, che, finalmente belve, parevano piú grandi del normale.
Non c’era altro, neanche mezza schiera di beati. Ce ne stavamo lí, tranquilli, a chiacchierare, le voci liete, senza mai un’asprezza – persino Elsa teneva basso il tono – le facce buone buone, intese a dimostrarsi ospiti all’altezza del posto e del regalo. E anch’io pallidamente simulavo, pur annoiandomi degli altri e di me stessa, mentre qualcosa mi diceva che essere prediletti può bastare in sé, e che a volerne raccogliere i frutti si può cadere in una scialba sproporzione. Che c’entra, per Elsa era diverso, aveva un’altra idea del Paradiso, lei ci vedeva innegabili vantaggi: andare senza borsa, per esempio, o alla sera non lavarsi i denti.
Ma io non ero ancora cosí stanca e preferivo i pranzi concitati, benché tra me un po’ mi vergognassi di non avere spirito abbastanza per trasognarmi nei piaceri alti. Avrei piú tardi rimediato, quando crescendomi la noia mia e degli altri, sarei ricorsa al piú sfrenato immaginare per abolire, non dico la realtà ma ogni traccia di verosimiglianza. E adesso mi stupisco quando penso a tutti quegli ingenui andirivieni tra un prato e l’altro dei nostri Paradisi tra i quali io sceglievo il più terreno per fingermi l’amata, la prescelta, chissà per quale grazia immeritata, senza sapere che in realtà ero bella.

Patrizia Cavalli su Elsa Morante (da un’intervista Rai)
(Qui un’altra chiacchiera smagliante)

I piedi nell’eterno

Io ho già messo i piedi nell’eterno. Ho aperto piccole faglie nel tempo già vissuto che dal mio corpo versano luce di storia per sempre. Ieri pensando a questi anni bui ho rivisto i sorrisi dei nonni: perché ci confortavano? Perché erano perfetti di conclusioni ormai note su vicende anche durissime della loro vita. La soluzione è arrivata sempre: lo scioglimento delle sostanze dolorose nell’acqua del loro fiume non è mancato mai, finché scorreva quel fiume almeno, finché cioè erano vivi. E sapere come va a finire, esserci quando finisce, con tutti i brandelli che ogni passaggio comporta, è meno penoso che stare al centro della paura. L’infanzia che ho vissuto, le curve che ho preso, le ferite che ho avuto, la poesia che ho portato, la vita che ho generato: sono cose indiscutibili. Al centro della paura ho il conforto di questi frammenti di storia già completi, le cui particelle iniziano a staccarsi dal corpo e starmi davanti come carezze, pronte alla deriva nel cielo quando non ne avrò più bisogno. Avere i piedi in parte già nell’eterno, grazie a queste particelle storiche completate, è possibile però solo a chi ha avuto la fortuna (diciamolo) di restare vivo per tutto questo tempo, di tornare vivo ogni volta e capirne la bellezza. Solo se sei ancora presente e il tuo fiume scorre puoi sentirne le carezze trovando motivi, non dico speranze, che controbilancino la paura. E i vivi, i presenti, i fiumi attivi sono sempre una minoranza, pure tra quelli che respirano ancora: molti hanno i piedi sulla terra, ma non più sull’eterno.

Ulisse per sempre

Itaca non sarà mai più la stessa. Argo ti ha aspettato, così tua moglie e tuo figlio ormai cresciuto. Tu non sarai più lo stesso di vent’anni fa. Non smetterai mai di tornare. Avrai molti anni di racconto a loro e loro a te per ricucire la trama di un’assenza. Ma la coperta sarà sempre troppo corta. Nel quotidiano, i segni di un tempo incolmabile: in un gesto mai visto prima, una smorfia, un’abitudine, uno scambio di sguardi tra loro che non ti appartiene. Fino all’ultimo giorno, nel tuo letto, con l’ultimo saluto. Per sempre. E chiuderai gli occhi davanti all’ennesima scoperta: solo l’amore compensa le assenze irrecuperabili. Alimentato desiderio di conoscere l’altro, le sue terre straniere che ti vivono accanto.