Manovro le finestre della casa a doppia esposizione come fossi in mare aperto. Spalancate, le blocco in mille modi: sedie, giocattoli, grucce, scatole, bastoni di scopa. Aspetto qualche minuto in vari punti, fermo sulla soglia delle stanze. Quando un filo di vento passa tutto il corridoio, invitato dal sistema aperto tra le ante e gli spigoli, vivo un trionfo navale. Vedo gonfiarsi il fiocco sovrapposto alla randa e sento l’obliquo strattone dello scafo sul mare piatto: i canovacci dondolano sulle maniglie, un foglio cade a terra, il lampadario oscilla incredulo. Dura un attimo, poi torna la bonaccia. Però ci siamo mossi! Sembrava di poter infilare di nuovo la maglietta e fissare il promontorio per mantenere la rotta su quell’angolo di vento. La casa invece si raddrizza, si ferma e noi ci affacciamo su entrambi i lati per capire, tra lamiere d’auto roventi e antenne immobili sui tetti, da dove arriverà la prossima spinta. Le sirene che passano a branchi potrebbero aiutarci ma non si fermano mai, perché non possono. Corrono, loro, verso l’ennesimo incendio.