Nota

Poco fa suonavo per i fatti miei, così, in pace. A un tratto ho sentito una voce che mi ha detto ricorda, non è perché suoni, non è perché suoni bene e sei intonato che la gente potrà perdonarti sempre tutto. Non è perché suoni e quando canti sembri un angelo che i tuoi devono sopportare a forza le tue bizze. Ho pensato no, certo, forse la musica aiuta; ma è il loro amore – non il mio canto – che spero mi accolga sempre. Il loro amore.

Farsi vivi

Rare volte, la morte si fa viva in modo generoso e alle persone speciali regala un tempo aggiuntivo per educare chi resta al suo abbandono, come ultimo gesto d’affetto. La mente si annebbia con una lentezza che dura anni e riserva sporadici lampi d’amore forse già inconsapevole, ma sinceramente provato e dimostrato a ogni occasione di un contatto delle mani, una carezza sulle tempie, uno sguardo tenerissimo. Il tempio non si ciba più da solo e i devoti passano gli ultimi anni accanto a Elena, che si curi di farla mangiare e la pulisca, solo questo; il cuore è forte e batte una musica d’acciaio, i valori sono incredibilmente stabili. La pianista non soffre e non ha un solo tubo attaccato per stare in vita, respirare meglio o alimentarsi. Niente: è libera. Continua a leggere “Farsi vivi”

Sbagliare festa

Li ho visti di nuovo. Stavolta erano solo due. Semaforo rosso, quasi mezzanotte, davanti agli spigoli opposti della vetrina Coin con la scritta “Merry Christmas” lampeggiante. I ragazzini impalati e senza barba tenevano schiacciati e dritti contro il petto due mitra di ferro nero. Stasera c’è molto più freddo di due settimane fa, perciò stavano riparati sotto la tettoia della vetrina, come naturale prosecuzione decorativa del negozio. Sul tratto di marciapiede davanti a loro sono passati tre giovani che mentre si dividevano in saluti per agguantare l’ultima corsa della metro, sembravano ignorare la loro presenza talmente tanto da ignorarli in maniera quasi ostentata, se è possibile dirlo; che non mi pare si possa definire un atteggiamento tipico della persona rassicurata. Che i due militari, anzi, davano l’impressione di aver sbagliato festa e, più che Natale, parevano due vestiti a Carnevale di cui nessuno apprezza la fatica per la cura e la ricercatezza del costume. Poveri. Noi.

Istruzioni

Le istruzioni per nascere al giorno come un filo d’erba che trama vita al quoziente fra sogno e resto del mondo sono: alzarsi di prima mattina, leggere da un libro di poesie e ricopiarne una, due – quelle che più ti sembrano cantare i versi del drago e arruffare le sillabe di capriole. Poi, nell’odore del caffè sentire la città nascere dalla coda della notte, o tornare a letto se vuoi: ti sveglierai di nuovo da un calcolo mai inventato per segnare il tempo delle coperte e ti scoprirai su un foglio, in parole vissute prima di te, come una traccia da seguire, bacio di rugiada all’ultima stella.

Bacato

Chissà quale genio bacato avrà messo in testa a una buona fetta della popolazione mondiale, tanto tempo fa, così lontano da perdersene memoria, il mito del continuo miglioramento di se stessi. Chissà quando il germe letale – illusione pronta a prendersi ex post i meriti dell’inevitabile dolore (procurato e ricevuto) con cui più spesso non si migliora niente, ma si cerca solo goffamente di riconoscere se stessi – avrà attecchito nella prima comunità umana cominciando ad avvelenare ogni discrimine legato a qualsiasi sentimento liminare di accettazione, affinità elettiva e sopravvivenza, persino, per sostituirvi un’idea di estranea edificazione mattone su mattone sui talenti che, per non essere schiacciati e fiorire, bisogna invece toglierseli di dosso i mattoni.

Sempre

Non possiamo essere sempre superiori a noi stessi, sempre sopportarci senza esserci ancora accettati, sempre minimizzare senza prima prenderci sul serio, sempre trattenere il fiato senza mai mollare lo spirito, sempre scavarci la fossa senza essere vissuti, sempre costruire futuri mirabolanti su ancore troppo corte, sempre mancare il pianto per non sentirsi dire l’avevo detto, sempre credere che il pensiero sia azione e stare fermi. Forse sì, forse so cosa devo fare. Vorrei poter parlare di tutto con te, anima mia; se vuoi essere l’anima mia. Anche in mia assenza: l’importante è che ci sia, tu.

Al parco

Oggi pomeriggio sono andato al parco. Per quattro istanti del tramonto ho assistito al dialogo fra un bambino salito su un ramo di cipresso e una bimba che lo guardava da terra – giubbotto fucsia, pupazzo in mano, mento all’insù. Non li sentivo perché ero lontano ma sono certo che stessero giocando. Magari pensavano davvero di parlare dei motivi che impedivano a lui di scendere e spingevano lei a convincerlo del contrario. Ma visti così, da fuori, era chiaro che giocassero, perché dai loro movimenti sembravano darsi un gusto reciproco nel mantenere quella situazione, seri e accigliati nelle loro posizioni. Allora ho pensato che tutti in fondo non facciamo altro nella vita. Io stesso ero fermo lì a pensare, senza capire che forse stavo giocando anch’io. E che gioco ancora adesso.

Pellegrini

E se c’è una pellegrina sulla terra non è la chiesa coi suoi attici, dicembre che mi arrivi inaspettato, ma è Carlo a cui ho dato il mio giubbotto vecchio contro il freddo e poi mi ha detto vuoi un caffè, portandomi al bar non più vicino per camminarci dentro agli occhi, dove lui ha preso solo acqua – dico, vuoi una bottiglia grande – no, risponde, mezza minerale e la sorbisce dal bicchiere come un aperitivo dei migliori, che la tipa ha dato il resto a me ma io le ho detto no, guarda, ha pagato lui, il barbone con cui sono entrato poco fa. E se c’è una pellegrina sulla terra non è la chiesa coi suoi attici, ma è il nome della persona che ogni giorno sta a cuccia davanti al parco dei motorini, ha cinquantadue anni di occhi azzurri come un paradiso e dice, da quando mi sono perso me ne sto qui perché è un bel posto che se hai quella sensibilità ti può anche venire un’emorragia sentimentale e si sta bene, dice lui che sorride, a me: si sta bene.