Il mio impero

Le mie viscere materne si torcono per il tuo male. L’utero che porto da uomo, per tutto ciò che in me è propenso alla vita, mi ha dettato una separazione: tu non sei il male che ti ha chiuso l’ingresso con una pietra. Una cosa sei tu, un’altra è lui. L’ho visto con occhi limpidi. Ora so di potermi infuocare contro il male che ti benda mentre il nostro distacco mi trapassa il cuore. La mia furia contro di lui sarà per te un sussurro di conchiglia, richiamo alla riva dei viventi. Perché tu e lui siete separati. Su questa divisione ho fondato il mio impero: tu di nuovo con me, stretti abbracciati; lui nell’irrecuperabile abisso che fischia ai piedi della Geenna.

Chiaro

Quando per la buca di un sasso, seguendo il ruscello che l’ha roso col suo corso, scendi dall’ultimo girone al chiaro mondo, la gravità si capovolge e trovi che la discesa era l’unica uscita possibile al cielo di un nuovo ringraziamento. Il fuoco prima battente le viscere della terra ora è lontano, fisso alla volta notturna, stella tra le mille a cui appuntare gli occhi umidi in compagnia di un amico. Un invito. Nel buio aperto della campagna il tempo si fa cura inespugnabile, benedizione di una terra ancora fertile. Il desco attira le volpi fuori dal mantello nero: non parlano ma girano pazze tra gli alberi per il calore del nostro cibo. Vogliono il pane dei nostri sorrisi, il vino dei racconti, il dolce dei silenzi. Dopo un sonno di lucciole sopra il cuscino è l’alba, la sveglia del fresco e il suono argentino delle greggi al ritorno. Più tardi verrà un altro amico – passa sempre, ma sta poco. E saranno altri doni, mani intrecciate, luce di nylon al pizzico della corda.